Due giorni fa è tornata finalmente l’energia elettrica dopo tre settimane di oscuramento. Le ragioni dei danni alla linea elettrica sono tuttora oggetto di discussione: c’è chi parla di sabotaggio da parte degli uomini del Movimento Oromo, recentemente uscito dal Governo di Coalizione in polemica con la gestione delle ultime elezioni amministrative da parte del più forte Fronte del Tigrai; chi parla invece più semplicemente di manomissione dei piloni da parte della popolazione per appropriarsi dei profilati in ferro che li compongono e trasformarli in materiali da costruzione. Comunque fosse, insieme alla corrente elettrica era saltato anche il sistema centrale di distribuzione dell’acqua, costringendo la popolazione a rifornirsi presso sorgenti localizzate a 6 o 7 chilometri dal centro urbano e trasformandole, con una insana promiscuità, in abbeveratoio per gli animali, in bagno pubblico e in fonte di rifornimento per usi domestici. Vivendo momentaneamente all’interno della missione cattolica, sono stato solo parzialmente coinvolto da questo pesante disagio: disponiamo infatti di mezzi di trasporto su cui caricare l’acqua delle sorgenti, di pompa idraulica e di capaci recipienti per immagazzinarne grossi quantitativi, di filtri per depurarla e di un paio di generatori di energia elettrica per poter continuare a lavorare durante il giorno e per illuminare gli edifici per alcune ore dopo la calata del sole. I missionari irlandesi che mi stanno ospitando, e con cui dovrò lavorare spalla a spalla per i prossimi due anni, sono invece per me motivo di riflessione.
Le manifestazioni di religiosità all’interno della missione sono ridotte all’essenziale nonostante essi siano sacerdoti a tutti gli effetti. Prima dei pasti c’è un telegrafico ringraziamento a cui noi partecipiamo appena fisicamente assumendo un atteggiamento di rispettoso contegno, visto che comunque siamo presenti attorno alla tavola; c’è la messa alla domenica a cui, in quanto non-credenti, non partecipiamo; c’è il raduno quotidiano di preghiera di tutti i lavoratori della missione (alcune decine) a cui ugualmente non presenziamo, anche se questo ha l’obiettivo di rinnovare il senso di comunità nel lavoro nel rispetto di ogni fede religiosa, visto che la pressoché totalità dei lavoratori appartiene alla chiesa copta-ortodossa etiopica. Scopo di questi missionari non è infatti quello dell’allargamento della comunità della chiesa cattolica e quindi della catechizzazione e della conversione, ma lavorare nel sociale e partecipare, attraverso il lavoro, la formazione professionale e l’esempio, al miglioramento delle condizioni di vita della gente. Nonostante la missione abbia ormai circa vent’anni di vita, la chiesa è stata costruita solo due anni fa, sotto la pressione delle gerarchie europee. Fino a quel momento la messa veniva officiata in una minuscola cappella situata all’interno dell’abitazione dei sacerdoti. Il rito riguardava quindi loro e la loro fede e non rappresentava, se non in termini personali, lo scopo della loro presenza sul luogo. Questo aiuta a spiegare dunque il perché nessuno mai ci abbia chiesto la ragione della manifesta estraneità alle pratiche religiose. Siamo volontari venuti in Africa a lavorare essendo pagati con un modesto stipendio e siamo disponibili a farlo insieme a loro.
Questa sembra essere sufficiente per ognuno, senza che nessuno, per questo, debba rivedere, stravolgere o, peggio, rinunciare al proprio patrimonio culturale.
Ciò che pare ulteriormente apprezzabile è che i missionari, più di noi volontari, che abbiamo certamente un bagaglio di motivazioni ideali, religiose e di disponibilità verso il prossimo inferiore al loro, sembrano avere lo stesso atteggiamento anche verso la popolazione locale: un enorme rispetto verso la cultura, la tradizione, l’originalità di ognuno. “Eppure sono preti”, mi sovviene a volte nel pensiero, trovando probabilmente nella mia stessa formazione l’ostacolo maggiore per un più accurato esame. Certamente il panorama delle chiese in generale e della chiesa cattolica in particolare è estremamente variegato e complesso, ma la capacità di ricondursi alle motivazioni di fondo e, in’ultima analisi, all’unità, è qualcosa che, anche dall’esempio se pure riduttivo che ho di fronte in questo momento, salta agli occhi ed è per me, che ritengo di provenire da esperienze politiche e da motivazioni ideali molto distanti, ragioni di necessari quanto inuti ...[continua]
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