Bossi è simpatico. Bossi buca lo schermo. Come è possibile? Non ha nessuna di quelle doti che normalmente assicurano un facile successo televisivo. Non sbrodola sentimenti, non rassicura, non esorta, incespica nelle parole, manca di prontezza nella battuta, evade in modo manifesto le domande, è volgare senza essere sfrontato, non conosce l’arte della pausa. E inoltre non è bello, sputacchia, indossa giacche quadrettate dalle maniche corte, cravatte improbabili (ah, l’abito blu di Sgarbi!), porta un ciuffo visibilmente melassato di forfora, ray-ban alla Califano, la fronte sempre imperlata di un lombardo sudore. L’eros che il suo corpo esprime è poi quello “duro”, sbrigativo, silenzioso del lavoratore -piccolo imprenditore, artigiano o aristocrazia operaia- che rincasando tardi la sera, non ha tempo da perdere per certe levantine raffinatezze. La sua oratoria, infine, manca visibilmente delle doti classiche della perspicuitas (chiarezza) e dell’ornatus (ornamento); ricorda piuttosto per la sua ossessiva ripetitività la ritmica in quattro parti di una discoteca di periferia: Roma ladrona, federalismo, spreco del denaro dei contribuenti, Roma ladrona, feder... Non c’è nessuna ragione, dunque, perché questa immagine - è di una immagine infatti che stiamo parlando - lasci un segno nello spettatore distratto, perché insomma seduca. Eppure la si confronti con quella, così a modo, del giovane Casini che, contro i “nuovi egoismi”, fa appello ai valori della solidarietà cristiana (dalla quale, naturalmente, sono esclusi omosessuali, abortisti e tossici non pentiti), oppure a quella del suo omologo pidiessino, trasudante umanità, moderazione, rispetto per le istituzioni ecc. Si faticherà allora a reprimere una sensazione di morbosa attrazione per quel colletto sbottonato, per quella pelle lucida, per quegli occhietti cosi privi di luce intellettuale. Perché Bossi assomiglia sempre più a quel piccolo mostro verdognolo, imparentato ai cinematografici greemlins (ma infinitamente meno problematico di loro e per questo più convincente), sognato da Antonio Ricci come immaginaria materializzazione di tutto ciò che di basso, di elementare, di “originario” produce la televisione una volta che è stata liberata da ogni arcaico impaccio ideologico (la televisione educatrice, formatrice di coscienza civile, la televisione che informa ecc.). Bossi è lo scrondo, un puro e sgangherato essere televisivo, fatto di etere, che come un’antenna vivente capta le onde della pubblica opinione, si sintonizza sulle pance degli utenti, rinvia loro, senza mediazione alcuna, la loro stessa immagine, li rende protagonisti e padroni assoluti della scena. La sua forza è la forza dell’elementare televisivo finalmente lasciato a se stesso, non più eterodiretto, non più asservito a finalità che non gli appartengono. Bossi che parla è l’apoteosi della democrazia di massa di Samarcanda e Profondo Nord. Anzi è un passo oltre quella, come se sparisse il palco dove, per antico retaggio libresco, si consuma ancora il rito del ragionamento, del progetto, e restasse invece soltanto il pubblico vociante, incazzato, ma perfettamente felice della propria visibilità. Un consiglio a Bossi: non si lasci irretire dai cattivi consiglieri del palazzo, non si persuada alla moderazione. Scomparirebbe come è accaduto a tanti personaggi televisivi che, ad un certo punto, hanno deciso di riciclarsi in abiti più seri. Lo scrondo, infatti, non può che essere maleducato, la sua natura è quella di girare per i camerini e di toccare il culo alle ballerine. Solo a questa condizione lo spettatore appesantito sulla sua poltrona, incazzato per le tasse e preoccupato per il figlio che non trova lavoro, può silenziosamente e inconsciamente riconoscerlo come un fratello e come un liberatore degli oppressi.
Rocco Ronchi
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