Andrea Caffi resta un intellettuale pressoché sconosciuto. Come si spiega?
Sì, è vero, Caffi è un personaggio interessante, affascinante, ma sconosciuto; appartiene a quel genere di intellettuale appartato e riservato che, come altri nel suo tempo, rimase sempre ai margini della vita pubblica e culturale dell’Europa tra ‘800 e ‘900, nonostante avesse stabilito, durante un’esistenza molto avventurosa, contatti e relazioni con i personaggi più diversi, soprattutto non appartenenti alla sfera politica. Ebbe una vita errabonda che lo portò ad attraversare tutte le vicende del secolo, dalla Grande Guerra alla rivoluzione russa, alle tirannie degli anni ‘20-’30 (fascismo, nazismo e stalinismo) fino alla Seconda Guerra Mondiale, in un progressivo scivolamento verso una marginalità che però lo vide, già anziano, ancora in contatto con Camus e tutto il mondo che gravitava intorno a Gallimard (presso cui faceva il lettore).
Nato a San Pietroburgo nel 1887, da un padre bellunese che si era trasferito in Russia per fare il costumista presso i teatri imperiali, e da un madre di cui si sa pochissimo (io ho trovato notizie scarse e contraddittorie, aveva un nome italiano ma pare fosse di origine bretone, e questo spiegherebbe perché Caffi scriveva piuttosto spesso in francese), lì frequentò un liceo per stranieri ed ebbe modo di fare le prime importanti letture, Herzen, i classici, e di avvicinarsi all’attività politica, cominciando a interessarsi alla nascita del movimento operaio e delle prime organizzazioni della socialdemocrazia russa, tutti elementi che poi contribuiranno a formare il germe della sua futura coscienza politica. Anzi, senz’altro, gli anni giovanili trascorsi in Russia costituirono per Caffi un’esperienza culturale cruciale, con cui dialogò per tutta la vita e da cui discese tutta la sua riflessione sulla crisi della civiltà europea e sulle forme peculiari che aveva assunto il comunismo in Russia. Potremmo affermare che il suo sentimento di appartenenza al mondo intellettuale russo è stato il filo conduttore di tutta la sua biografia intellettuale.
Ma c’è un motivo per cui è caduto così nell’oblio?
Una delle cause è data senz’altro dalla mancanza di testi originali attraverso cui conoscere il suo pensiero. Forse per carattere, per temperamento, o per le avversità che attraversarono la sua esistenza, Caffi non riuscì mai a scrivere in modo organico, a produrre un’opera che lasciasse un segno; il suo pensiero è tuttora disperso tra corrispondenze epistolari, articoli, collaborazioni a riviste e contributi vari, difficili da recuperare e studiare nella loro interezza. Il suo era un pensiero frammentario, asistematico, del tutto vulnerabile alle molteplici sollecitazioni, aperto e sensibile agli interessi più diversi, cosa che da un lato gli garantiva un’ampiezza di orizzonti inconsueta, dall’altra però lo condannava all’impossibilità di concretizzare la sua riflessione in un’opera significativa. Caffi affidava il suo pensiero e le sue riflessioni prevalentemente al colloquio personale, direttamente o sotto forma di epistolare, e anche questo, forse, è un lascito della cultura in cui si era formato e della sua consonanza con Herzen, una figura fondamentale per la sua riflessione, e che come lui, era più propenso al colloquio personale, alla lettera, all’appunto, al manoscritto improvvisato piuttosto che alla trattazione sistematica delle questioni. Inoltre, spesso si rivolgeva a figure minori dell’emigrazione o del mondo del dissenso; con le poche eccezioni di Camus, Chiaromonte e Rosselli, raramente ebbe a che fare con nomi altisonanti; i suoi contatti più importanti provenivano tutti da un mondo sommerso costituito in gran parte da eretici, esuli, dissidenti che non avevano a che fare direttamente con la politica.
Non vanno sottovalutate, poi, le condizioni disagiate in cui è vissuto, soprattutto nel secondo dopoguerra; nelle sue lettere agli amici, per quanto fosse riservatissimo e avaro di informazioni sulla sua vita personale, non è raro trovare richieste di aiuto o addirittura richiesta di oggetti o generi di prima necessità. Lo potremmo definire un intellettuale dilettante, come altri, del resto, del suo tempo, un intellettuale che non fece mai della cultura una professione, tant’è che, appunto, ebbe un’esistenza piuttosto stentata, priva di un contesto professionale definito e permanente; sopravvisse grazie a sp ...[continua]
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