Nel 1996 il premio che la Fondazione Siemens conferisce per la musica è stato assegnato al pianista Maurizio Pollini. Grazie alla Fondazione Siemens, e per conto di essa, è stato possibile intervistare Maurizio Pollini, che raramente concede interviste, ma apprezza veri rapporti di comunicazione.

Lei è noto per il modo innovativo di scegliere i suoi programmi di concerto. Incontra delle difficoltà nel proporre l’inserimento di pezzi moderni?
Sono un musicista che non si è limitato a un periodo storico, ma che ha incluso anche qualche pezzo contemporaneo nel suo repertorio. Purtroppo la cosa non è consueta. Ma vorrei dire anche che credo di aver fatto molto poco per la musica contemporanea, nell’insieme. Forse appare molto, perché la musica contemporanea è trascurata dagli interpreti, per cui qualche esecuzione che io ho fatto acquista un rilievo che non dovrebbe avere. Secondo me la cosa fondamentale per la musica di oggi è semplicemente che i musicisti e gli interpreti si decidano a metterla nei programmi. Quando lo faranno credo che la battaglia per la nuova musica sarà vinta in breve tempo. Non credo che esistano delle resistenze veramente forti da parte del pubblico. Perché, semmai, il pubblico ha delle resistenze sul materiale moderno.
Che cosa intende con "materiale moderno"?
Penso, molto banalmente, all’uscita dalla tonalità. L’impressione del pubblico è di avere a che fare con accordi e elementi musicali diversi da quelli a cui è abituato. Se i musicisti eseguissero normalmente la musica contemporanea, tra qualche anno il pubblico si abituerebbe ad apprezzarla. Sono profondamente convinto che la vita musicale moderna abbia bisogno di un rinnovamento. Questo non toglie la validità di riproporre le opere celebri, oggi come domani. Un pubblico giovane che va a sentire per la prima volta le sinfonie di Beethoven, segue una scelta validissima. Ma accanto a queste esecuzioni del repertorio tradizionale, penso sia una vera e propria necessità oggi che la vita musicale si allarghi verso esperienze nuove, per una necessità interna di rinnovamento. Non è possibile andare avanti esattamente con gli stessi programmi decennio dopo decennio. A questo punto è chiaro che il periodo storico più importante è quello che stiamo vivendo. Dobbiamo aprirci alla musica della creazione di oggi. Ma secondo me è anche interessante riscoprire le opere meno conosciute degli autori del passato, oppure la musica antica che è ascoltata ben di rado nelle sale da concerto. Tutte queste esperienze potrebbero vivificare enormemente la vita musicale di oggi.
Nel bellissimo programma che accompagna il "Progetto Pollini" di Salisburgo lei ha scritto: "Se siamo interessati che continui la creatività musicale, sarà indispensabile il contatto con un pubblico più vasto". La frase suona come se fosse possibile una società che rinunci alla propria creatività musicale.
Forse il concetto è espresso in modo un po’ violento. Ma si tratta di quello che ho già detto prima. E’ vitale per i nuovi compositori acquisire un nuovo contatto con il pubblico. Il pubblico dei concerti di oggi non è grandemente interessato alla creazione musicale di oggi. Lo dovrebbe essere molto di più. Come lo è stato in tutte le epoche. E’ fondamentale per una società avere un rapporto con la musica che si crea in quel momento e non solo con la musica del passato.
E’ molto significativo come una società tratta i suoi spazi acustici e quali luoghi crea per ascoltare la musica. Penso all’Opera. In Italia qualsiasi piccolo centro ha il suo teatro d’opera, per non parlare della Scala. Alla fine del Settecento e nell’Ottocento, la società italiana aveva un rapporto esplicito e straordinario con la musica.
E creava spazi che erano ideali allo scopo per il quale venivano creati. All’origine avevano un’acustica anche migliore. Non esistevano le moquettes, le poltrone di velluto, non c’era il rivestimento dei palchi, probabilmente erano dei corpi acustici perfetti, con la possibilità per il canto di passare sopra l’orchestra e arrivare in maniera diretta in sala. Mi sembra che tutti gli spazi acustici siano stati creati a seconda delle necessità, a seconda di un’idea che gli uomini hanno avuto, a partire dal teatro greco fino ai nostri giorni. Tra gli spazi acustici ideali possiamo citare le grandi sale da concerto come il Musikverein di Vienna che è stato costruito alla fine dell’Ottocento, nel periodo in cui Bruckner scriveva le sue sinfonie. Infatti, è la sala ideale per l’esecuzione di una sinfonia di Bruckner, immaginata per questo scopo e perfettamente realizzata. Quali spazi corrispondono alle esigenze di oggi? Ecco la domanda interessante. Quali sono le necessità della musica contemporanea? Per l’esecuzione di alcuni suoi pezzi Boulez ha dovuto cercare degli spazi acustici al di fuori delle normali sale da concerto, perché la disposizione normale delle sale da concerto non andava bene acusticamente per questi pezzi. Quindi possiamo pensare che in futuro potranno nascere delle sale da concerto con un concetto magari diverso o con la possibilità di una modulabilità secondo le necessità acustiche della musica nuova.
C’è una cooperazione tra architetti e musicisti?
Questa è una domanda che lei dovrebbe fare ai compositori. Mi sembra che la fantasia dei compositori attuali spinga verso spazi con possibilità di cambiamento interno e di adattabilità a varie possibilità e differenti situazioni acustiche.
Quale sarebbe per lei la sala ideale per le sonate di Beethoven?
Io amo molto le grandi sale, dalla Filarmonia di Berlino al Musikverein, alle grandi sale americane come il Carnegie, che adesso ha ritrovato un’acustica molto buona. Aveva perso parte della buona acustica che aveva in conseguenza di lavori fatti; adesso è stata ripristinata con grande successo. Comunque, qualche volta, anche con la potenza del pianoforte moderno, noi sentiamo che certa musica, come le sonate di Beethoven, avrebbe bisogno forse di sale più piccole, perché tutte le sfumature possano arrivare all’ascoltatore. Noi suoniamo il repertorio pianistico in sale probabilmente più grandi di quelle che sarebbero ideali per questo scopo.
Adorno parla della crisi della piccola sala, per ragioni sociali e anche commerciali.
Indubbiamente. Esiste un limite nella possibilità di estendere la dimensione delle sale, non si può andare oltre un certo limite, altrimenti la qualità della percezione soffre troppo.
Suo padre come architetto ha lavorato per Adriano Olivetti, in un ambiente di grande sensibilità sociale.
Mio padre ha avuto un rapporto di lavoro quasi costante con Adriano Olivetti per un periodo molto lungo, direi, vent’anni. In fasi successive ha realizzato un grande numero di costruzioni a Ivrea per la fabbrica Olivetti che sono esempi degli inizi dell’architettura moderna in Italia e hanno quindi un valore storico notevole. Senz’altro ho ereditato da mio padre un’evidente sensibilità per l’architettura moderna. Però sento anche un grande legame con i centri storici delle città, quindi con l’architettura del passato.
Quali luoghi e città le sono particolarmente cari? Anche le città hanno una loro qualità musicale…
Una loro armonia architettonica. Abbiamo già parlato dei centri storici delle grandi città europee. Evidentemente mi sento legato a questi, alle città italiane, Parigi...
Come riesce a trovare ancora il tempo e l’energia per amicizie, l’impegno politico, per le arti sorelle, in breve, per la vita?
Direi che il mio modo di difendermi soprattutto in questi ultimi anni è stato quello di limitare la mia attività di musicista a un numero, diciamo, ragionevole di concerti e di impegni, che assolutamente non hanno mai oltrepassato negli ultimi anni il numero di 40 concerti l’anno. Questo mi ha permesso di avere dei periodi di libertà per studiare, ma anche per i miei vari interessi.
Lei ha uno Steinway stupendo.
Ho comprato quest’anno un nuovo pianoforte, che avevo già suonato, un buonissimo strumento. In questo momento gli sono molto affezionato, ma lo conosco solo da pochissimo tempo.
Per lei è molto importante suonare il proprio strumento o suona volentieri anche su altri?
Io amo molto l’esperienza di suonare su pianoforti diversi. Perché ritengo che sia stimolante la possibilità di un suono diverso, suonare strumenti con caratteri diversi. Però ovviamente solo ad un certo livello.
I festivals, la grande idea dell’Ottocento, sono ancora una festa?
I festivals hanno un certo interesse quando propongono nella vita musicale qualche cosa che non si ha tutti i giorni. Devono avere questo carattere eccezionale per avere una validità. Quindi è importante sia la qualità delle esecuzioni, sia che vi si affrontino parti del repertorio che normalmente non si eseguono. Questo mi pare una funzione importantissima dei festivals.
I festivals hanno un certo interesse quando propongono nella vita musicale qualche cosa che non si ha tutti i giorni. Devono avere questo carattere eccezionale per avere una validità. Quindi è importante sia la qualità delle esecuzioni, sia che vi si affrontino parti del repertorio che normalmente non si eseguono. Questo mi pare una funzione importantissima dei festivals.
Ma c’entra anche il pubblico con la sua particolare Stimmung?
Qualche volta c’è, qualche volta non so. E’ difficile rispondere a questa domanda.
La critica può svolgere un ruolo importante nella costruzione di un nuovo pubblico?
La critica potrebbe svolgere un ruolo fondamentale per il rinnovamento della musica, un ruolo molto forte e positivo. Ma lo fa adesso solo in qualche caso.
Per lei la critica è importante?
Io leggo solo una parte di quel che si dice. Naturalmente quando i giudizi sono motivati da uno studio e da una riflessione possono essere molto interessanti.
La musica popolare era una volta una risorsa importante per tutta la vita musicale. La musica pop e rock può svolgere una funzione analoga secondo lei?
Bisogna distinguere. Senz’altro sono d’accordo che la musica popolare sia stata una risorsa per la vita musicale. Aveva una validità intrinseca ed era una fonte di ispirazione per i grandi compositori del passato. Citiamone due. Beethoven per un grande periodo della sua vita ha fatto elaborazioni di canti popolari di varie nazioni: scozzesi, irlandesi, inglesi, portoghesi, russi, tirolesi, italiani. Ha dedicato molto tempo a questo. Le opere 105 e 107 sono rispettivamente delle variazioni per flauto e piano su temi popolari. Invece l’opera 108 è una raccolta di 25 canzoni scozzesi con un accompagnamento per trio di Beethoven stesso. Il fatto che abbia dato dei numeri d’opera personali a queste elaborazioni dimostra, secondo me, che aveva un grande rispetto per questa musica popolare. Un altro autore che ha dedicato tutta la vita alla musica popolare è stato Bartòk. Ha viaggiato nell’Europa dell’Est o addirittura in Africa alla ricerca di temi popolari con un grande arricchimento della sua musica. E’ stata una ricerca di grande importanza. Oggi ci si domanda: esiste ancora la musica popolare in queste nazioni? Non lo so. Forse la musica popolare non esiste più perché non esiste popolo. O forse dovremo andare molto più lontano, in continenti extra-europei alla ricerca della musica popolare di oggi. Per quel che riguarda la musica rock ho difficoltà a dare qualsiasi giudizio perché la conosco malissimo. Non ho nessuna particolare attrazione per essa. Per quel poco che conosco, mi ha dato l’impressione di una grande povertà di invenzione. Non penso che possa stimolare la vita musicale, a differenza del jazz che all’inizio aveva un’invenzione musicale e una sua validità.
Penso che si dovrebbero stimolare i giovani ad affrontare la musica più importante, la musica classica, che attualmente ha nella nostra società un ruolo limitato.
Per rispondere al vuoto attuale e ad una falsa idea di comunicazione diffusa dai media un autore come Heiner Müller propone di "reinventare il silenzio".
E’ un’idea straordinaria. Uno potrebbe anche dire che bisognerebbe riempire gli spazi che i media ci lasciano. Quindi si potrebbe dire anche il contrario. Ma è una riflessione che impressiona.
Lei, nel 1961-’62, ha fatto una pausa di riflessione.
Io ero un ragazzo allora. Dopo il concorso di Varsavia avevo la possibilità di una carriera musicale, ovunque, con molti concerti. In quel momento non mi sono sentito sufficientemente maturo per affrontarla. Allora decisi di studiare per un certo periodo senza dare concerti e poi di non darne molti, ma di studiare ancora un certo numero di anni. Questo mi ha permesso soprattutto di allargare il mio repertorio che dopo il concorso Chopin avrebbe potuto concentrarsi su Chopin. Invece mi sono dedicato ad un repertorio più esteso, ai grandi compositori tedeschi, da Beethoven a Mozart e poi, qualche anno dopo, alla musica del Novecento.
Cosa pensa del silenzio come ricerca dell’essenzialità, in Webern ad esempio?
Andando a ritroso possiamo vedere questi silenzi in Nono, in Stockhausen, ad esempio nel X Klavierstücke ci sono grandi sospensioni, qualche volta sono delle risonanze tenute, qualche volta dei vuoti, comunque sono delle sospensioni che hanno un effetto incredibile nella struttura del pezzo. Andando a ritroso troviamo Webern con l’importanza fenomenale della pausa nella sua musica, ma possiamo anche risalire fino a Beethoven e i suoi esempi di temi smozzicati, celebri esempi come il tema frantumato alla fine della marcia funebre dell’Eroica, oppure le melodie spezzate dell’Appassionata oppure i temi dell’arioso dolente dell’opera 110 o della cavatina del quartetto 130. In ogni musica il silenzio ha un’importanza fondamentale, non solo in questi autori. Ogni musica è fatta di note e di silenzi. Lei trova in molte sonate di Beethoven alla fine di un movimento una battuta vuota con corona. La musica è finita, ma quel silenzio è ancora musica. Quindi, il silenzio è musica. Si può fare anche un’altra riflessione. Nel silenzio, se si esclude qualsiasi impressione visiva, l’unica realtà che rimane è lo scorrere del tempo. Lo scorrere del tempo evidentemente è una cosa fondamentale della musica. E’ particolarmente affascinante vedere come in varie musiche lo scorrere del tempo può essere modificato dalla realtà musicale, come può essere modificata la nostra sensazione soggettiva dello scorrere del tempo. In varie maniere: ad esempio, nei temi più energici beethoveniani abbiamo l’impressione di una condensazione temporale, di una condensazione di energie. Oppure il fenomeno opposto in certi adagi schubertiani dove abbiamo l’impressione di un dilatarsi del tempo quasi all’infinito. Questa possibilità della musica di agire sulla nostra percezione temporale è una delle realtà più affascinanti.
Lei ha fatto recentemente tutto il ciclo delle sonate di Beethoven, lo aveva fatto già nel ’93. E’ cambiato molto?
C’è una continua maturazione di queste sonate, certamente. Affrontare la totalità di questo mondo delle sonate, mi sembra abbia aggiunto qualcosa anche all’interpretazione delle sonate più celebri eseguite da moltissimi anni. Forse hanno acquistato qualcosa. Ogni volta c’è un arricchimento. E’ affascinante una cosa in Beethoven: non esistono, almeno in questo repertorio, momenti minori. La mia esperienza è che se un rondò o un movimento di una sonata poteva all’inizio non fare una grande impressione mi sono accorto, dal lavoro fatto, che era sempre una manchevolezza personale. In realtà, ogni movimento di Beethoven ha una straordinaria unicità, per cui non esistono momenti deboli, assolutamente.
Il ciclo è stato registrato?
No. Comunque vorrei col tempo completare i dischi delle sonate di Beethoven, spero di riuscire a farlo nei prossimi anni.
Lei è famoso per la sua perfezione tecnica, ma anche per la sua insaziabile curiosità verso il testo. Come vede il rapporto fra tecnica e interpretazione oggi?
Il rapporto fra tecnica e interpretazione non credo che vari fondamentalmente nel tempo. E’ chiaro che la tecnica è sempre un’ancella, un mezzo dell’interpretazione. Questo vale oggi come valeva ieri. Ma forse si può fare una riflessione sul fatto che esistono vari livelli sia per quel che riguarda la tecnica che per quel che riguarda l’interpretazione. Per quanto riguarda la tecnica, possiamo parlare di una basilare correttezza o precisione nel suonare che è il punto fondamentale e poi possiamo pensare che c’è una tecnica superiore che ovviamente interessa molto di più e che riguarda entità come la qualità del suono, che fa parte della tecnica, ma è già un livello molto più alto della semplice meccanica. La qualità del suono: la differenziazione dei pesi delle note in un accordo è già strettamente collegata con l’interpretazione, con la sensibilità dell’artista, oppure ha a che fare con il virtuosismo, perché qualche volta un grande virtuosismo è necessario; e il virtuosismo è qualcosa di più che suonare le note giuste.
Riguardo l’interpretazione, un dato acquisito oggi è la fedeltà e il rigore verso il testo, cioè la realizzazione dei segni del compositore. Questo, però, è solo il livello più elementare dell’interpretazione, che evidentemente consiste in qualcosa di più. La parte veramente interessante è scoprire quello che la scrittura musicale non può contenere, cioè quello che il compositore non riesce a scrivere a causa dei limiti delle possibilità della scrittura musicale. Questo è il compito più affascinante che noi abbiamo oggi, come sempre. Si può dire che nel nostro secolo si siano fatti dei progressi per quel che riguarda la base dell’esecuzione. Questi livelli inferiori sono stati raggiunti da tutti, credo, in modo più corretto di prima, ma il livello superiore, sia della tecnica che dell’interpretazione, è sempre molto difficile ed è la cosa più affascinante. Forse si potrebbe fare riferimento alla musica di un grande autore, quella di Bach, che è stata analizzata in modi diversi nella storia. C’è un libro interessante di Schweitzer che offre un’interpretazione particolare della musica di Bach dal punto di vista descrittivo. Questa musica avrebbe addirittura una volontà di espressione extra-musicale, legata ai testi. In questo libro Schweitzer sostiene, forse in maniera un po’ esagerata, che Bach ha tentato in ognuna delle sue cantate di essere il più possibile vicino al significato del testo cantato, rendendo con la musica ogni sfumatura delle parole, ottenendo così una varietà straordinaria e miracolosa di caratteri, per cui ogni cantata è diversa dalle altre. Nell’ambito della musica strumentale bachiana non vi è più il testo, evidentemente, ma credo che troviamo questa estrema ricchezza di caratteri altrettanto grande di quella delle opere vocali, delle opere con testo. E’ compito dell’interprete rendere questa estrema ricchezza di caratteri in tutta la loro differenziazione e penso che non ci sia niente di più contrario allo spirito del compositore di esecuzioni uniformi senza caratterizzazione. Questo per dire quanto sia importante cercare di capire quello che non può essere scritto, quello che non può entrare nella grafia musicale per i limiti della scrittura.
Vorrei aggiungere un’altra cosa. Qualche volta nel passato si è detto che la fedeltà al testo musicale, cioè l’esecuzione fedele dal punto di vista letterale, può creare difficoltà per quel che riguarda la fantasia e l’espressione. Trovo che questo è assolutamente falso. La fedeltà al testo non limita le possibilità di uno sviluppo verso qualcosa di più ricco, anzi, è solamente il piano inferiore dell’interpretazione.