Massimo Raffaeli è filologo e critico letterario. Scrive per quotidiani come “il Manifesto” e per il suo inserto Alias e collabora al “Venerdì di Repubblica”. Dal 2011 collabora con il programma di Rai Radio 3 “Wikiradio”. Ha tradotto autori francesi (Artaud, Céline, Zola) e ha dedicato saggi ad autori italiani del Novecento come Franco Fortini e Paolo Volponi. Il suo ultimo libro è Compagni di vita e altri scritti di letteratura (Inschibboleth, 2023). Assieme a Luca Baranelli ha curato il volume di Sebastiano Timpanaro Leopardi e altre voci (Giometti e Antonello, 2023), che raccoglie i contributi enciclopedici del grande filologo scomparso nel 2000.
Molti testimoni parlano dell’affabilità di Sebastiano Timpanaro, capace di mettere a suo agio l’interlocutore nonostante l’immensa dottrina che possedeva. Lei l’ha mai conosciuto? Che ricordo ha?
L’ho incontrato de visu da lontano, ai margini di un convegno, e ci ho parlato una sola volta, grazie a Luca Baranelli, un paio d’anni prima che morisse. Era con tutta probabilità il 1998, l’anno del centenario leopardiano. Sul manifesto avevo curato uno speciale per il centenario e volevo intervistarlo. Gli telefonai, ma Timpanaro era rimasto seccatissimo da un’altra intervista che era appena uscita su un quotidiano. Fu molto gentile, come suo costume, ma quando l’ho sentito poco disponibile naturalmente non volli forzare. Questo è il mio unico ricordo personale. In realtà, la prima volta che sentii il suo nome fu molto prima, quando ancora frequentavo l’università, a Bologna, dal mio grande maestro di filologia, Fiorenzo Forti. Quell’anno, sarà stato il ’76, Forti tenne un corso su Leopardi, durante il quale emerse più volte il suo nome. Da quel momento mi sono accorto che, dovunque leggessi, Timpanaro era sempre presente. Per chi ha fatto studi di filologia classica è uno dei nomi che ricorre più spesso.
Proprio Luca Baranelli, in un’intervista a questo stesso giornale che risale all’ormai lontano 2001, metteva a fuoco alcune particolarità di Timpanaro. Nel suo campo, la filologia, era considerato un punto di riferimento a livello europeo, e le sue opere erano studiate e commentate. Ma aveva tantissimi altri interessi: politici, filosofici, letterari. Per questo suo eclettismo si era attirato molti sospetti e si sentiva isolato dagli altri intellettuali, dai filosofi, dagli psicoanalisti, che hanno spesso accolto col silenzio la sua produzione critica. È così? Timpanaro si sentiva isolato?
Non avendolo conosciuto personalmente, non posso entrare in questioni personali e psicologiche. La mia impressione da lettore è questa: Timpanaro aveva la grandezza dello specialista, ma non ne aveva l’ideologia. Si muoveva con grande libertà e genio dentro le materie che gli interessavano, e non ne faceva mai una questione di recinto disciplinare. Per dirla alla Franco Fortini, guardava alla “funzione intellettuale” ma era scarsamente interessato ai suoi cerimoniali. Ma quelli che potrebbero sembrare interessi centrifughi -il materialismo, la storia della filologia, la storia della tradizione socialista- sono in realtà perfettamente centripeti e coesi alla sua personalità; e la filologia è l’habitus che li tiene assieme.
In vita sua Timpanaro non ha mai firmato un’edizione critica e non ha mai scritto una monografia; eppure i suoi interventi sono una galassia, una costellazione tale da avere non solo influenzato, ma sostenuto il lavoro di una quantità incredibile di specialisti, anche, come si diceva, a livello internazionale. E tutto questo avveniva con una straordinaria coscienza della sua disciplina. Perché Timpanaro è stato un grandissimo storico della filologia. L’apparente “libretto” sul metodo Lachmann è in realtà una critica molto precisa ai limiti positivisti e meccanicisti di quel metodo ed è una ripresa, un innesto della metodica molto più elastica e magnanima messa a punto dal suo grande maestro, Giorgio Pasquali – di cui è stato, forse, il migliore allievo. È stata proprio questa attenzione così critica alla filologia che l’ha portato a muoversi in altri “campi di Agramante”, come quello della psicoanalisi. Con risultati eccezionali. Oggi la sua critica del lapsus freudiano è tranquillamente entrata nel senso comune degli psicanalisti. Ma la filologia è entrata anche nei suoi interessi ideologico-filosofici. Lo studio attento delle fonti, il recupero del pensiero di un personaggio come Engels, che era stato espulso dal Diamat stalinista... Insomma, la sua personalità intellettuale è fortemente integrata. È stato un pensatore magnanimo, nel senso etimologico: aveva una grande capienza intellettuale e umana. Un pensatore la cui fama, purtroppo, è inversamente proporzionale alla sua importanza. Ma tutto questo è molto italiano.
Quali sono le ragioni di questa rimozione della figura di Timpanaro? E perché lo definisce un fenomeno tipicamente italiano?
È stato rimosso perché, come dicevo, Timpanaro era molto legato alla funzione intellettuale e poco al ruolo. Prima di tutto, non era un accademico -ma questo può essere un dato non così importante. E poi, Timpanaro perseguiva la verità obiettiva delle cose del mondo.
So che detto così potrebbe sembrare un atteggiamento temerario e dogmatico, ma il personaggio era tutto il contrario del dogmatismo. E per questo motivo, Timpanaro era del tutto indenne, metodicamente e strutturalmente, da quella che è l’unica vera identità italiana: il trasformismo.
Ce lo ha spiegato molto bene un grande estimatore di Timpanaro, di cui in questi giorni ricorre il centenario, Giulio Bollati. Ora, Timpanaro era agli antipodi del trasformismo. Non conosceva quel cerimoniale ipocrita che consiste nello smussare le verità, nell’accodarsi in maniera opportunistica a qualche senso comune. Poteva risultare indigesto per alcuni -e per fortuna lo era. Anche politicamente.
Se si analizza la sua traiettoria politica, spigolando fra i suoi interventi sui “Quaderni piacentini”, si nota una grande inflessibilità nelle idee. Riusciva a essere critico, addirittura aspro, senza risultare mai dogmatico. Questo atteggiamento, probabilmente, l’ha isolato.
È interessante che, come altri grandi della storia intellettuale della sinistra italiana -citavo poco fa Franco Fortini, ma vorrei aggiungere anche Raniero Panzieri, che gli è stato molto vicino- Timpanaro non veniva dal Pci, non ne conosceva la “storia sacra”; veniva dalla sinistra socialista, quindi era vaccinato contro lo stalinismo, così come contro il massimalismo da bocciofila di molti suoi esponenti.
È rimasto per tutta la vita un socialista di sinistra e un marxista convinto, senza però condividere il dogmatismo di quella “storia sacra”. La sua vicenda politica e intellettuale è più vicina al trozkismo; per fortuna, però, non si è mai infognato nei gruppuscoli e nelle piccole vulgate da “Quarta internazionale”, che riproducevano microscopicamente i difetti della macroscopia comunista. La sua lezione è stata la libertà intellettuale.
Leggendo gli interventi scritti durante l’epoca berlingueriana del Pci emerge la figura di un uomo incredibilmente radicale, a sinistra della sinistra. Una posizione che oggi non esiste più.
Sì, era un critico della sinistra. Lei allude a quel bellissimo libro, ormai sparito, che era uscito a puntate su Belfagor, intitolato Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, che uscì proprio all’epoca del compromesso storico, di cui Timpanaro fu un acerrimo ma non cieco nemico. C’è un modo cieco di opporsi e c’è un modo intelligente di essere radicali, nel senso marxiano del termine: ovvero di andare alla radice di un problema.
C’è un piccolo, recente libro pubblicato dal Centro di documentazione Pistoia, che vorrei citare, scritto da Luca Bufarale e intitolato L’inquietudine della ricerca, che racconta in maniera molto lineare la sua parabola politica. Le sue posizioni erano ideologicamente molto nette, senza mai essere ortodosse. Antileopardiani e neomoderati, pur senza essere un pamphlet, racconta un aspetto molto singolare del trasformismo italiano. Descrive come tutto, dopo un po’, converga sulla palude, sulla “palus putredinis”, come diceva Sanguineti in Laborintus. E questo, Timpanaro, senza nessun moralismo, non mancava mai di comunicarlo.
Mi ha fatto impressione leggere le sue lettere scritte dopo i fatti d’Ungheria del 1956. È incredibile vedere come determinati schemi interpretativi nei confronti della grande Russia esistano ancora oggi, a sinistra.
Io vengo da una famiglia di comunisti. Mio zio, Guido Molinelli, morto quando avevo 10 anni, è stato il primo deputato comunista delle Marche ed è il primo nome citato nelle Lettere di Gramsci, con cui è stato deportato a Ustica. Mio nonno, che era del ’98, è stato prima socialista, poi tesserato Pci dal 1921: sono cresciuto in una couche ebraico-comunista, in cui la “rocca dei salmi” era rappresentata da Giuseppe Stalin. L’eroe che aveva battuto Hitler, liberato i campi... Conosco tutto questo come testimone, per averlo respirato e subìto da ragazzo. Era precisamente questo il clima con cui Timpanaro entrava in reazione. Timpanaro, tuttavia, non ripiegò mai su posizioni, non dico social-democratiche, ma di banale accettazione dell’esistente come minor male. L’esercizio della critica era primordiale per lui, e quindi era benefico. Vedere sempre due dove c’è uno: questo lo sanno fare in pochi. E lui lo faceva senza perdere mai la nettezza che gli veniva dal suo genio filologico.
Torniamo allora alla filologia. Se dovesse spiegare al lettore come e perché Timpanaro è stato così importante per la filologia, quali punti citerebbe?
Ne citerei due: uno teorico e uno pratico. Come storico della filologia ha mostrato in maniera nettissima, recuperando la lezione del maestro Pasquali, che il vecchio modo di acquisire i testi antichi, attraverso quello che si chiama stemma codicum, cioè attraverso una trasmissione quasi meccanica di testi, peccava appunto di una metafisica meccanicistica. In un libro straordinario del 1934, Storia della tradizione e critica del testo, Pasquali diceva che quando riceviamo un testo dall’antichità, se vogliamo costituirlo in edizione critica dovendo scegliere fra tante lezioni apocrife e interpolate, non ci basta fare una triangolazione meccanica di testi più antichi. Dobbiamo sapere di storia della lingua, di archeologia, di cultura materiale... Quella di Pasquali era una grande lezione di storia, slegata dai vincoli e della metafisica dello storicismo, in cui “tutto si tiene”. Questo è un contributo di natura teorica.
Dal punto di vista pratico, Timpanaro, pur asserendo di non aver mai voluto scrivere monografie o edizioni critiche, lo aveva fatto per una collana economica, sottacendolo. Nei “Grandi libri” di Garzanti, nel 1987 esce in edizione economica il De divinatione di Cicerone, una delle sue opere meno note ma di grande rilievo culturale e filosofico. È un’edizione critica di lusso, con settanta pagine di introduzione perfetta, in una collana iper-economica. Ora, a parte questa eccezione, Timpanaro la filologia l’ha esercitata in una miriade di scritti spersi, rivolti ai suoi interlocutori. Francescanamente rispondeva a tutte le lettere, a tutti gli studenti e gli studiosi che si cibavano del pane del suo sapere, come dice Dante nel Convivio. E ne hanno goduto a lungo. Celiando, come molti toscani sono soliti fare, Timpanaro diceva che, a parte La genesi del metodo del Lachmann e una breve monografia su Leopardi, non aveva all’attivo “scritti maggiori”. Questo lo scrisse nel 1978, quando, molto tardivamente, raccolse i suoi contributi di filologia classica, definendoli “scritti minori”. Ma questi scritti sono in realtà una costellazione.
Prima parlava di un habitus della filologia: una disciplina talmente introiettata da formare un’abitudine metodologica, una chiave di lettura del mondo. Anche, per esempio, nella critica alla psicanalisi.
Giambattista Vico, che certamente non era un filosofo che potesse sentire vicino il nostro Timpanaro, in una delle sue famose “degnità” dice che filosofia e filologia “reciprocantur seu convertuntur”, ovvero sono reciproche e si trasfondono l’una nell’altra. Timpanaro è un caso che incarna questa “degnità” vichiana fra filosofia e filologia.
Passando a Freud: diciamolo pure, si nota un grande sospetto verso la psicanalisi da parte di Timpanaro. E il sospetto è che Freud, prima di essere un grande scienziato sia un grandissimo scrittore, complice dello stesso mondo borghese che pretendeva di curare. Ma voglio essere chiaro: Timpanaro non era mosso da un pregiudizio ideologico. È emerso di recente che, nell’ultima parte della sua vita, Timpanaro è stato in analisi, perché era affetto da forme nevrotiche piuttosto importanti.
Qual è l’apporto critico di Timpanaro? Non ha mai negato la scientificità della psicanalisi -non l’avrebbe mai fatto. Ma ha smontato, attraverso una micro-indagine, uno dei libri fondativi della disciplina, La psicopatologia della vita quotidiana, pubblicato nel 1901. Ricorro a uno schematismo da reprobo: i due testi fondativi della psicanalisi sono L’interpretazione dei sogni, nel quale Freud sosteneva che l’inconscio ci parla di notte, attraverso il sogno, e la sua grammatica è la trasposizione e la condensazione. L’inconscio ci parla per simboli e allegorie. Nell’altro libro, Freud allarga lo spettro d’indagine e ci dice che l’inconscio parla anche di giorno, attraverso gli atti mancati e i lapsus.
È qui che Freud analizza un famoso caso di lapsus commesso da un suo paziente. Durante l’analisi, il paziente cita il famoso verso virgiliano di Didone che lancia la sua maledizione a quel cialtrone di Enea per averla abbandonata: “Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor”, letteralmente “che nasca un giorno dalle mie ceneri un vendicatore”. Ma citandola, il paziente fa cadere quell’aliquis, lo omette. Perché? Freud lo spiega così: perché il suono di aliquis è molto vicino a quello di “liquido”, e al paziente ricorda il liquido mestruale proprio nei giorni in cui ha paura di aver messo incinta la sua amante occasionale. Una trovata romanzesca geniale, d’accordo, ma che secondo Timpanaro si può spiegare in modo molto più economico ricorrendo agli strumenti della filologia. Di questo lapsus, Timpanaro ne fa un caso di quella che i filologi chiamano lectio facilior: siamo sempre portati a semplificare, a banalizzare quello che conosciamo poco o niente. Quando il monaco medievale copiava i suoi manoscritti, spesso non capiva una parola di quello che scriveva, ed era naturalmente portato a tradurla nel suo lessico. Quando ad esempio doveva copiare “vocem”, scriveva “focem”, perché l’uso del parlante prevale sulla lettera del testo. Allo stesso modo per questo aliquis, un parola poco comune di cui il paziente, semplicemente, non si ricordava; omessa per ragioni filologiche, per semplificare una struttura sintattica difficoltosa.
Com’è stata accolta la sua critica al lapsus dagli psicanalisti?
Due anni dopo la morte di Timpanaro, un altro filologo che oggi non c’è più, Nuccio Ordine, organizzò un convegno i cui atti sono apparsi per Liguori. Tra questi c’è un bellissimo contributo di Giovanni Jervis, grande psicanalista, in cui sostiene che oggi i rilievi critici di Timpanaro su quel tipo disinvolto di leggere il lapsus sono perfettamente sottoscrivibili. E anche alcuni suoi rilievi sul materialismo. Un altro tema che suscitò molte perplessità, al tempo.
Tra le cose più belle che ha scritto Timpanaro ci sono le sue lettere. E Luca Baranelli ha curato il suo carteggio con Cesare Cases, un altro fuoriclasse assoluto della nostra cultura. Il carteggio è intitolato Un lapsus di Marx, edito dalle edizioni della Normale, ed è un pezzo di storia italiana. Timpanaro aveva uno stile estremamente nitido, ma anche una grande e pungente capacità polemica. Era una polemica sempre legata ai fatti, mai ideologica. In alcune lettere Cases scrive a Timpanaro di non esagerare troppo coi suoi richiami al materialismo. Altrimenti, dice Cases, qualcuno potrebbe pensare che dall’ebreo Freud tu voglia passare a un altro ebreo, ancora peggiore, che è Lombroso. Era una battuta che faceva parte del loro scambio pungente, ma rimane il fatto che in pochissimi, oltre Timpanaro, hanno più parlato del materialismo in Italia, dove la tradizione è ancora quella storicista, hegelo-gentiliana. Che ci ha dato però grandi come De Sanctis, Gramsci, o lo stesso Benedetto Croce -un altro grande che ormai abbiamo dimenticato. Apro una parentesi veloce: Croce era sicuramente un analfabeta della scienza (come diceva il padre di Timpanaro, storico della scienza), ma è stato colui che ha distrutto felicemente sia l’arcadia accademica sia il positivismo della cattedra. Ed era un grande scrittore, forse il più grande prosatore del nostro Novecento. La voce che Timpanaro scrive su Croce per l’Enciclopedia Europea di Garzanti, nel ’77 mi pare, è perfetta in questo senso. Distingue criticamente tra la parte che oggi sentiamo datata e scaduta di Croce, da quella positiva, che come un enzima ha fermentato dentro la nostra cultura, svecchiandola radicalmente. Timpanaro gliela riconosce tutta: era da Galileo che non esisteva in Italia una scrittura saggistica di quel rango. In questa breve voce, pur non facendo nessuno sconto a Croce, Timpanaro gli riconosce di essere stato un grande riformatore della tradizione gesuitica italiana e del positivismo, che altro non era se non un gesuitismo scientista e ateo.
Nell’introduzione a questo libro appena citato, che raccoglie le voci enciclopediche redatte da Timpanaro, lei scrive che il nostro usava la cultura materialista come antidoto allo “spiritualismo ideale eterno” della cultura italiana. Uno spiritualismo che torna in varie vesti: come strutturalismo, gramscismo, freudianesimo. È possibile che questa passione per il materialismo gli sia derivata tutta da Leopardi? E direi anche per l’ateismo -rimane ancora cruciale la sua curatela de Il buon senso di Holbach.
Giustissimo, un capolavoro che non viene mai citato. Pensi che è da poco uscita una buona monografia su de Sade, per Carocci: nell’accuratissima bibliografia non è citato il Il buon senso edito da Garzanti e curato da Timpanaro. Una cosa scandalosa, per me. Su quanto il suo materialismo sia debitore di Leopardi, beh, questa è una domanda difficile.
Timpanaro ha cominciato studiando Leopardi filologo, verso il ’54-’55. Dopo l’edizione curata con Pacella degli Scritti filologici giovanili, uscita nel 1969, è arrivato a studiare la filosofia leopardiana, passando per la mediazione di Pietro Giordani, una figura straordinaria.
Ex benedettino spretato, giacobino militante, straordinario scrittore e classicista: e soprattutto l’anti-Salieri. Giordani era un uomo allora famigerato, che entrava e usciva dalle varie prigioni dei piccoli ducati italiani con una nonchalance assoluta. Anche lui, come Timpanaro, ha fatto duemila cose nella vita, ma non ha lasciato “il libro”. Dicevo l’anti-Salieri, perché se fosse stato un Salieri avrebbe cercato di ucciderlo, il giovane conte Leopardi: e invece, con un’assenza totale di invidia, con una capacità eroica l’ha imposto, sempre. Il carteggio fra Giordani e Leopardi è di una bellezza assoluta, anche se non esiste ancora in Italia una sua edizione accessibile. Isolare queste lettere, far vedere come nasce questa amicizia, sarebbe una cosa bellissima. Pensi che quando Giordani arriva per la prima volta a Recanati, Leopardi ha 19 anni e non ha mai messo piede fuori da Palazzo Morello da solo. Ma ho divagato.
Timpanaro arriva alla filosofia di Leopardi attraverso Giordani. Ma com’era letto allora il pensiero di Leopardi? Schematizzo. Prima c’era stato il Leopardi romantico del Tommaseo. “Tutto è male perché io sto male”, e viceversa: era un modo di liquidarlo come il gobbo che si lamenta, un semplice caso patologico. Poi c’era stato il Leopardi crociano, severamente diviso fra vera poesia e pseudo-concetti. Croce salvava certamente un verso come “Al biancheggiar della recente luna”: un verso madreperlaceo, che sembra scritto negli anni Trenta da Quasimodo o da Luzi. Ma davanti a “La ginestra” Croce capitolava: questa è “filosofia andata a male”! -la stessa filosofia che Leopardi chiamava “la mia filosofia arida e trista, disperata ma vera”. Poi, nel Dopoguerra, c’era stato il libro di Cesare Luporini, Leopardi progressivo. Ma, con tutto il rispetto, è un libro un po’ ambiguo, dal titolo quasi togliattiano, che non si capisce: implica una consonanza politica che in Leopardi, semplicemente, non c’è. Certo: Leopardi scandalizzava Monaldo perché leggeva i libri proibiti ed era naturaliter un liberale, ma non molto più di questo.
La vera rottura si ha con Binni e Timpanaro. Binni legge Leopardi dal versante della poesia, vedendone il fermento delle poetiche. Timpanaro va al dunque con lo Zibaldone, le Operette morali, gli scritti giovanili. Già nei suoi saggi puerili come il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi un Leopardi dodicenne si chiede se le bestie hanno un’anima. È già la domanda di un materialista. Quindi si arriva allo Zibaldone, cinquemila pagine che Leopardi chiude nel 1832. Ma il grosso lo scrive tra il ’23 e il ’27, quando c’è la svolta nel suo pensiero: da un Leopardi ancora legato a Rousseau, all’idea che il male dell’uomo sia un allontanamento dalla natura, si arriva a un Leopardi che fa una virata a tutto tondo: il male dell’uomo è l’ipoteca che la natura ha messo sulla sua natura psico-fisica.
Le ultime parole dello Zibaldone andrebbero stampate e date a tutti gli studenti italiani: “Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non avere nulla a sperare dopo la morte”. Si crede a qualunque fantasia, ma di essere individui mortali, mai. Timpanaro arriva al dunque su questa filosofia. Non ha mai scritto nulla sui versi di Leopardi. E anche questo è un grande indice di habitus intellettuale, di straordinaria correttezza: non si è impancato a lettore di poesia, che effettivamente non era.
Per certi versi potrebbe sembrare che un pensatore come Leopardi possa portare al pessimismo, e quindi operare in senso anti-rivoluzionario, radicalmente contrario alla filosofia marxista. Timpanaro diceva che Leopardi non deve sostituire, ma “completare” Marx.
Certo. Marx non ci ha dato un’antropologia, ma uno straordinario strumento di critica dell’economia politica. Leopardi invece tocca aspetti esistenziali che il marxismo, quando ha cercato di toccare, non ha fatto altro che danni. Pensi a Zdanov, a tutto il progressismo ottimistico che c’è stato. Leopardi non ha aspettato Adorno e Horkheimer per scrivere la sua dialettica dell’illuminismo.
Ma Leopardi non è un anti-illuminista, tutt’altro. Pensiamo alla “Palinodia al marchese Gino Capponi”, dove Leopardi chiede agli illuministi: adesso che ci sono i treni, i sigari, che possiamo leggere gazzette e giornali, per tutto questo la gente non soffre più, non si ammala più, non muore più? Leopardi tocca un fatto antropologico, psico-fisico, che il marxismo non tocca o lo tocca alla Diamat, come fosse un catechismo. Per questo Timpanaro dice che sono due piani che vanno giustapposti, Marx e Leopardi. Ed è certo una grande lezione di umiltà: Leopardi parla dei limiti dell’uomo; tutta la filosofia marxista della vulgata prometeica questi limiti non li ha voluti leggere, ma li ha pagati cari.
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