Matteo Marchesini è critico, poeta, saggista. Tra i suoi libri citiamo il romanzo Atti mancati (Voland, 2013), i racconti di False coscienze (Bompiani, 2017), Miti personali (Voland, 2021) e la recente raccolta Iniziazioni. Racconti di sette età (Elliot, 2024); i saggi critici Da Pascoli a Busi (Quodlibet, 2014), Casa di carte (Il Saggiatore, 2019) e il recente Diario di una cavia (Castelvecchi, 2023). Collabora con Il Foglio e Radio Radicale.
Come sei entrato in contatto col pensiero di Timpanaro, e cosa ti ha colpito di questo autore?
Mi sono interessato ai suoi scritti mentre lavoravo alla mia tesi di laurea. Il suo pensiero mi colpì per uno strano incrocio di motivi ideologici e critici. La mia tesi era dedicata alle estetiche e alle teorie dell’arte del Novecento più o meno condizionate dal marxismo, o meglio da marxismi diversi. Da una parte analizzavo Lukács, dalla parte opposta Brecht e, ancora diversamente, Adorno. Ma per tutti e tre la mia base di partenza era Franco Fortini. Di lui mi interessavano sia gli aspetti della teoria dell’arte e della critica letteraria, sia la sua visione della società e del mondo. Tutti questi autori, in modi diversi, hanno parlato dei limiti della visione marxista dell’arte e del mondo. Ad esempio, nel suo primo libro di saggi critici, Dieci inverni, pubblicato nel 1957, Fortini aveva toccato un tema interessante, che usava contro un marxismo che riteneva un po’ troppo volgarmente storicista.
Fortini parlava delle “zone notturne” della vita, intendendo con questa formula l’esistenza di un limite biologico dell’uomo, dovuto alla natura e al male naturale. In una pagina di Dieci inverni dice, grosso modo: tutti quelli che vengono chiamati colloquialmente “gli storpi”, i “deformi”, i “dementi”, tutti questi elementi che i marxisti ortodossi definiscono eccentrici, che non si possono inserire nella classe operaia, dove li collochiamo nella nostra versione marxista? Hitler la sua riposta ce l’aveva, sapeva benissimo cosa fare di questa gente. Noi non possiamo ignorare questa domanda. La questione mi colpiva molto, la ritrovavo nel mio libro preferito di Calvino, che è sempre stato La giornata di uno scrutatore -che d’altronde è di quegli stessi anni e affronta lo stesso tema. Il protagonista, Amerigo Ormea, convinto storicista, sicuro che la storia emancipi e liberi l’uomo, va a fare lo scrutatore comunista al Cottolengo, e vede cos’è il male naturale. È stato attraverso questo tema che mi sono imbattuto nel marxismo ossimoricamente leopardiano di Sebastiano Timpanaro. “Un illustre studioso del Leopardi che vuole integrare Marx col suo poeta prediletto”, così lo definisce il suo amico Cesare Cases in un testo bellissimo del 1965, Un colloquio con Ernesto De Martino, un dialogo fra Cases e l’antropologo napoletano, costretto sul letto di morte. È un dialogo sulla morte, appunto, sulla religione, intesa alla De Martino come fondamento di senso del mondo, senza il quale gli individui e la società se ne vanno a pezzi. Dalla mia tesi, da questa ricerca sui limiti della visione marxista, è nato il mio interesse per Timpanaro.
Hai citato Cases. Avrai sicuramente letto il carteggio fra Cases e Timpanaro, intitolato Un lapsus di Marx e curato nel 2015 da Baranelli. Da queste lettere si nota come spesso Cases sia stato polemico nei confronti di Timpanaro -ad esempio nei confronti del suo materialismo.
Sì, è un carteggio meraviglioso e divertentissimo. Sono due prosatori straordinari, e Cases viene fuori in tutta la sua eleganza comica. Ricordo ad esempio un passo molto divertente dove si parla di dentisti. Cases dice di essere andato da due dentisti per avere pareri diversi: l’uno, “empirista”, gli aveva consigliato di togliere un singolo dente; l’altro, un dentista che definisce “strutturalista”, gli aveva detto che non si poteva capire il singolo dente senza tener da conto l’intero arco dentale. Insomma, c’era da sostituirli tutti! Sono lettere bellissime, in cui parlano di tutto, dai dentisti agli strafalcioni di Pasolini nella traduzione dal greco. Sulla tua domanda: secondo me, quello che emerge chiaramente nella loro polemica è che in realtà Cases è molto sensibile alle obiezioni di Timpanaro; ma c’è una distanza ineliminabile fra i due, che consiste, per Cases, in un atteggiamento che non ha solo a che vedere col suo marxismo storicista ed hegeliano. Cases si è formato su Lukács (diceva, scherzosamente, di essere stato l’agente di Lukács in Italia), ma poi l’ha superato, è passato ad Adorno, a Brecht.
Si considerava un illuminista scettico. Proprio per questo Cases credeva che gli unici temi su cui valeva la pena di discutere pubblicamente fossero temi storici e umanistici. C’è forse un’eredità ebraica, qui: Cases non aveva nessuna fascinazione per la natura, neanche negativa. Per lui le questioni materialistiche di Timpanaro erano, in un qualche modo, secondarie. Lo sappiamo, succede così: la natura è orribile, l’uomo si ammala, dovrà morire. Non vale la pena di parlarne. Ciò che ci deve interessare non è la natura, è la storia che noi facciamo. Ecco che qui viene fuori tutta la tradizione hegelo-marxista. C’è insomma una grande affinità fra i due nel loro atteggiamento illuminista -un aspetto che si vede benissimo nella loro prosa, estremamente chiara, limpida, raziocinante. Ma Cases è abbastanza impermeabile ai temi leopardiani. Non perché non li considera, ma perché è come se il “Vanitas vanitatum” dell’Ecclesiaste lui lo desse per scontato.
Sembra che ci sia un’ossessione quasi patologica per quel limite biologico e materialistico da parte di Timpanaro.
Sì. E credo che in parte ci sia anche una questione di cultura famigliare, nel senso più letterale del termine. Era figlio di uno scienziato e di una madre che, oltre agli studi classici, si è occupata di Galileo, traducendo per prima il Sidereus Nuncius. Insomma, dai Timpanaro siamo in un ambiente fortemente anti-crociano, quindi anti-idealista e anti-storicista. Lo stesso Leopardi era stato un grandissimo estimatore di Galileo: questo illuminismo italiano, che è stato poi travolto nella nostra storia, si rifaceva al sensismo francese più netto, quello di d’Holbach.
Timpanaro si sentiva isolato, già ai suoi tempi, per questa sua radicalità materialista e ateista, nonché per le sue posizioni politiche: era più rivoluzionario, a suo modo, di molti falsi rivoluzionari dell’epoca. Per questi stessi motivi, forse Timpanaro è oggi ancora più isolato, più dimenticato; è ancora più difficile sentire vicina la sua lezione. Cosa ne pensi?
Sì, penso che sia così, per varie ragioni. Intanto, per la sua particolare concezione del mondo, come dicevi. Ma c’è forse un punto più generale: Timpanaro non voleva risarcimenti ideologici di nessun tipo. Non voleva far quadrare a forza i conti che non tornano, come di solito fa la tradizione storicista. Uno storicista giustifica l’esistente in una teodicea laica; e spesso lo fa anche il materialista, che sotto sotto diventa uno strano “idealista del materialismo”. Questo suo modo empirico di affrontare i problemi, che si potrebbe definire, usando un lessico distante da quello di Timpanaro, per “congetture e confutazioni”, è sempre più lontano dalla cultura italiana, purtroppo. Ed è molto lontano da noi anche l’atteggiamento che Timpanaro aveva rispetto all’insegnamento. Sappiamo che aveva difficoltà a parlare in pubblico. Insegnò per un certo periodo nelle scuole medie, e aveva anche realizzato dei manualetti pedagogici per i suoi studenti. Ma Timpanaro privilegiava sempre la situazione in cui l’insegnamento si fa tra pari, e diventa in realtà seminario, un confronto empirico, orizzontale con le persone. Di recente sono andato a trovare, qui a Bologna, un ex professore di letteratura greca. Mi ha mostrato una lettera che Timpanaro gli scrisse quando era ancora molto giovane. La lettera iniziava dicendo, pressapoco: “Caro Spina, lei ha compreso una cosa che non avevo mai capito studiando per 30 anni la materia”. Ecco: questo modo di entrare in relazione con l’altro è il contrario del clericalismo.
Ho già citato nella mia rubrica per Radio Radicale un ricordo bellissimo di Luca Baranelli, che è sintomatico. Timpanaro accettò di fare una lezione alla Normale di Pisa, ma durante la spiegazione rimase molto irrigidito. Fu solo dopo, quando fuori dall’aula uno studente gli chiese dei chiarimenti, che si sciolse e s’infervorò, attirando a se tutti gli altri studenti e creando così un clima spontaneo di discussione.
Qualche tempo fa ho letto il bel libro di Michael Walzer, Che cosa significa essere liberale. Walzer cita la frase di un suo maestro che diceva, in sostanza, che fare l’insegnante a tempo pieno porta inevitabilmente a un’impostura. Nessuno che stia dietro a una cattedra, per il ruolo stesso che ricopre, riesce a trattenersi dal parlare di cose che non conosce davvero a fondo. Di qualunque argomento parliamo ci sono sempre ramificazioni, che ovviamente non possiamo dominare tutte; ma se sei insegnante devi rispondere agli interrogativi dei tuoi studenti. Ecco: secondo me in Timpanaro c’era un’iper-sensibilità a questo limite dell’insegnamento. Atteggiamento che è l’esatto contrario di ciò che avviene di solito: siamo circondati da persone che non aspettano altro che d’esercitare il loro potere clericale, ore rotundo, e catechizzare su cose che nemmeno loro conoscono troppo bene. Sotto questo aspetto, ahimè, Timpanaro è oggi lontanissimo dalla nostra cultura.
Timpanaro aveva una fortissima propensione allo stile epistolare. Come lui stesso ammetteva, non ha mai scritto la “grande opera”. In questo mare magnum di scritti, difficili da reperire anche perché non esiste ancora un’edizione che li raccoglie tutti, quali salveresti? Quali sono quelli che oggi ci parlano ancora?
È una domanda difficile perché non li conosco certo tutti. E soprattutto non ho gli strumenti per giudicare i suoi scritti tecnici di filologia: non domino la materia.
Mi verrebbe da dire, stando alla tua domanda, che sarebbe bello se si facesse una raccolta di Lettere di Sebastiano Timpanaro. Raccogliere le sue lettere più significative, fare quello che si farebbe per uno scrittore antico, il cui genere letterario è l’epistola.
Delle cose che ho letto e che posso appena giudicare, è stupendo il libro sul lapsus freudiano di cui avete già parlato con Raffaeli; e trovo stupendi i saggi specificamente leopardiani contenuti in Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano. Timpanaro dice formidabilmente bene come Leopardi sia stato un caso raro di unione fra progressismo e pessimismo; elementi che in lui non vengono a compromesso, che non si elidono a vicenda, ma coincidono. La “social catena” della Ginestra (che, va detto, è un testo leopardiano del tutto singolare) si innesta su un totale pessimismo per quel che riguarda la condizione biologica e naturale degli esseri umani. Timpanaro dice splendidamente anche qual è l’avversario di questa cultura leopardiana, che ha avuto diverse reincarnazioni fino a oggi. Nel caso leopardiano è stato il progressismo moderato liberal-cattolico, che mette assieme, per Leopardi come per Timpanaro, il peggio: vecchie superstizioni religiose in forma di nuove superstizioni scientiste, recidendo l’unica base progressista accettabile per lui, che era quella dell’illuminismo francese. Non è un caso che Leopardi sia sempre stato mutilato dai suoi interpreti per non sottolineare troppo quella che è la sua vera radicalità. Prima citavamo anche il carteggio con Cases: in un’ideale antologia di Timpanaro lo inserirei senza dubbio. Infine, qualche mese fa è uscito per i tipi di Aragno questo volume di Timpanaro, intitolato Ritratti di filologi.
Tra i suoi vari ritratti (tra i quali cito quello di Isaia Graziadio Ascoli, una figura importante per la cultura italiana) c’è anche quello del suo maestro Giorgio Pasquali, che è semplicemente meraviglioso. Per equilibrio, ovviamente, ma anche perché viene fuori un’altra caratteristica di questa “inattualità attuale” di Timpanaro, di cui parlavamo prima. Parlando di Pasquali, il nostro dice che aveva il gusto dei problemi particolari. Partiva empiricamente da un singolo problema; e da lì, per risolverlo, convocava attorno a quel problema tutta una cultura che secondo lui non poteva essere divisa a compartimenti stagni. Da un lato, quindi, uno zoom estremo da cui partire; ma da lì, poi, nessuna paratia: perché, per risolvere quello specifico problema filologico, bisogna mettere in campo una conoscenza variamente storica. Tutto questo fa capire benissimo da dove viene Timpanaro.
Infatti viene in mente, chiarissima, la sua critica al lapsus freudiano. Prima parlavi della reticenza a vestire i panni del maestro tradizionale, di quanto preferisse, all’atteggiamento ex cathedra, un confronto empirico e orizzontale. E come critico, quale lezione si può imparare da Timpanaro?
In generale, le persone di cultura possono imparare da lui a essere un po’ meno cialtrone. E lo dico prima di tutto a me stesso. Quando leggi Timpanaro hai un’impressione di pulizia morale e di probità della ricerca che è molto rara.
Un’altra cosa importante, come dicevamo prima, è stata la sua battaglia contro lo storicismo, la cui tradizione nobile -quella crociana e marxista- è finita, ma che in realtà si è riprodotto oggi a un livello violentemente elementare. Oggi lo storicismo non è più il culto dialettico della storia, ma, più semplicemente, il culto della cronaca. Appena ci si presenta davanti un potere che sembra vincitore, lo accettiamo in quanto tale. Diciamo che siccome è, è giusto che sia. Purtroppo quello che è rimasto dello storicismo è solo l’acqua sporca. Timpanaro, anche a questo proposito, è un buon monito, che ci può insegnare a non giustificare ciò che non va giustificato.
Si potrebbe anche usare Timpanaro contro Timpanaro... Nel libro sul lapsus dice delle cose a cui è difficile opporsi. Semplificando: Timpanaro dice che la psicanalisi mette tra parentesi, da un lato la storia, dall’altro la natura. Lo psicanalista e il suo paziente finiscono così per trovarsi in una situazione da saggezza ellenistica, molto vaga. Una cosa che lui non sopportava perché, come Leopardi, era convinto che i problemi della vita non si possano risolvere rifugiandosi nell’impassibilità. La natura è un incidente che ti capita addosso; e la vita, per definizione, è vitale. La psicanalisi, sostiene Timpanaro, nel corso della sua storia, ha dato sempre meno contributi scientifici (aveva in mente i primissimi scritti di Freud, quelli ancora legati al positivismo ottocentesco) e ha avuto un successo sempre più letterario. Ora, la stessa cosa si potrebbe dire in realtà del marxismo: ha dato sempre meno contributi scientifici e ha prodotto sempre più materiale letterario, anche un po’ onirico, da parte di intellettuali umanisti. Ma su questo aspetto Timpanaro ha mantenuto una sua piccolissima riserva di idealismo meno timpanariamente giustificato.
Timpanaro aveva un approccio soprattutto emotivo nei confronti del marxismo. Penso a Il socialismo di Edmondo De Amicis, il suo libro del 1984: la politica è ricondotta a un fatto emotivo più che razionale. In una pagina di questo libro dice che, se anche il marxismo avesse torto in un suo aspetto teorico, mettiamo la caduta del saggio di profitto, questo tuttavia non cambierebbe il fatto che al mondo ci sono ingiustizie, esistono gli oppressi e lo sfruttamento. Che tipo di giudizio dai sulle sue posizioni politiche a partire da questa sua “emotività marxista”?
Per quello che conosco dei suoi interventi pubblici più impegnati sul politico, sul sociale e sull’ecologia, la parte migliore, e per fortuna preponderante, del suo marxismo è quella che dici tu, quella emotiva e proprio per questo tendenzialmente pratica. È una sorta di socialista di fine Ottocento, che ha continuato a esserlo perché il socialismo nasce contro le ingiustizie, per aiutare gli oppressi e migliorare le loro condizioni di vita.
Rispetto al primo socialismo, nel Novecento molto si è prodotto a livello filosofico-teorico da parte più degli umanisti che non degli economisti marxisti; ma molto poco si è prodotto dal punto di vista pratico, della concreta possibilità d’azione. Il Novecento migliore è quello che ha applicato concretamente i sogni di welfare ottocenteschi, che ha creato l’associazionismo sindacale -altre cose che oggi ci sono molto lontane... Ecco, credo che ci fosse in lui il meglio della Seconda Internazionale anziché il peggio della Terza.
E forse c’è un altro punto che ha reso via via Timpanaro più attuale, anche se non si parla più di lui. Alla fine del Novecento la natura, che era stata messa in secondo piano rispetto alla storia, è rientrata prepotentemente in scena. Pensiamo ai temi dell’ecologia, o delle radici biologiche di certo disagio psichico. Uno degli psicanalisti che l’ha preso sul serio è stato Giovanni Jervis, che ha poi ripreso certi suoi spunti. La critica, ad esempio, alla tendenza a umanizzare, ad antropomorfizzare ogni processo, fino al complottismo; e la critica alla tendenza ad attribuire un finalismo a processi naturali casuali.
Nei suoi ultimi interventi il tema dell’ecologia è molto presente, legato a doppio filo a una riflessione antropologica. “Non è detto che l’homo sapiens sia capace di comunismo”, scrive; ma se il capitalismo dovesse continuare, “causerebbe la fine della specie umana”.
Da questo punto di vista i suoi temi sono certamente i nostri. Ma mi viene in mente adesso un’altra cosa che mi sembra molto attuale, soprattutto per i critici, come mi chiedevi prima. È la sua diffidenza nei confronti della sovra-interpretazione. Timpanaro aveva stilisticamente un grande senso dell’economia e della gerarchia degli elementi dell’argomentazione. Diffidava (pensiamo ancora una volta alla sua critica del lapsus freudiano) di un fenomeno che è poi diventato estremamente inquinante: l’interpretazione che, anziché far vedere meglio le cose, le nasconde, le confonde. Un vecchio tema tipico anche della giovane Susan Sontag. Ora, Timpanaro si oppone a questa sorta di “gas sovra-interpretativo” non solo ideologicamente, ma anche attraverso la sua prosa. Leggerlo vuol dire farsi un’idea di cosa significa mettere gli argomenti in gerarchia. Saper distinguere fra un argomento che pesa 90 e un altro che pesa solo 0,5. Capire che non bisogna scrivere saggi di centinaia di pagine su una futilità, e che possono bastare trenta pagine dense su un tema importantissimo. Come sapeva fare lui.
(a cura di Iacopo Gardelli)
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