Susanna Ronconi, tra i fondatori di “Fuori luogo”, si occupa di formazione e supervisione del lavoro sociale, in particolare nel campo delle marginalità urbane e delle tossicodipendenze.

In questo momento sei impegnata in diverse attività in campo sociale con un tuo approccio particolare, autobiografico, per così dire. Puoi raccontare?
Mi piace presentarmi in questo momento come una persona che raccoglie storie, perché si può dire che la mia vita, personale e professionale, si stia addensando attorno a questa questione.
Sicuramente tutto è cominciato con un lungo lavoro su me stessa e sul mio passato politico. A metà degli anni ‘80, dopo la chiusura della storia di Prima Linea, eravamo tutti in carcere e spontaneamente abbiamo cominciato a fare un bilancio della nostra storia, a tentare un ragionamento critico sul nostro passato. Cercavamo di riagganciare il presente dando forma al nostro passato. In un primo momento fu proprio un percorso di difesa e rivendicazione, perché se c’era una cosa che maggiormente ci era negata in quegli anni era il diritto a un’autobiografia. Se parlo al plurale è perché fu davvero un percorso di memoria collettiva: anzi, il provare a tenere in piedi quella memoria è stato il collante di quel collettivo, che non stava più insieme per una condivisione di storia politica, effettivamente già chiusa. Non volevamo essere espulsi dal mondo e il fare memoria subito così, a caldo, è stato una specie di atto vitale. La prima volta che ho capito che la mia storia, il mio passato e la memoria erano così essenziale per me è stato in quel contesto.
In effetti fino a quel momento non avevo mai ragionato su queste cose. Il mondo dei militanti allora era un mondo di eterno presente, un presente eternamente dilatato. Non c’era un riferimento forte al passato né una progettualità tale da consentire di definire ciò a cui volevamo arrivare. In carcere invece ho cominciato a ragionare sugli altri tempi che sono presenti nella nostra vita. Da una parte c’era il futuro, però lì il ragionamento era bloccato, (il carcere non ti consente di guardare troppo avanti); ma dall’altro lato cominciava già a esserci il passato, anche se era un passato recentissimo perché si era appena chiuso. Ed è come se questa memoria ci fosse improvvisamente apparsa come strumento di difesa contro il nulla del carcere. Quando ci penso col senno di poi questa mi sembra una cosa abbastanza straordinaria. Avremmo potuto metterla in molti altri modi, avremmo potuto fare molte altre cose, e abbiamo fatto in realtà anche molte altre cose, nel e sul presente, però mi sembra importante che per tutti noi il primo appiglio sia stato proprio quel passato che stavamo scontando in carcere, senza che nessuno di noi avesse un discorso particolarmente raffinato o teorico su questo. Ci siamo detti: salviamo il senso e il valore di questa memoria, diamogli una forma perché sia comunicabile anche ad altri e facciamone una specie di ancora contro lo smarrimento.
Qual è il bilancio, oggi, della ricostruzione di quella memoria politica?
Direi che quell’esperimento, visto oggi, un po’ è riuscito e un po’ fallito. E’ anche questa riflessione che mi ha portato a lavorare sulla memoria anche in un altro modo, in un’altra dimensione. E’ fallita secondo me la parte rivendicativa e negoziale rispetto al resto del mondo: non ce l’abbiamo fatta, tra virgolette, ad accreditare la nostra storia dentro la storia di questo paese. Me ne sono accorta negli ultimi due mesi in cui abbiamo girato presentando il libro di Sergio Segio. A vent’anni di distanza c’è ancora un forte rancore rispetto alle nostre storie, l’ho sentito fortissimo, rinnovato. Questo diritto all’autobiografia non l’abbiamo ottenuto. Potrei fare un parallelo di questo mio pessimismo con un bellissimo libro sulla memoria, Alla cieca, di Claudio Magris. Premetto che Magris in tutti gli anni del carcere è stato per noi un riferimento fortissimo, perché riusciva a guardare alle cose che stavano accadendo con molto disincanto, ma ancora con una fortissima speranza. Penso appunto al suo Utopia e disincanto. Ricordo una frase che trascrivevo di continuo: “Una voce nel buio urla la vita non ha senso… ma è sempre il timbro profondo e accorato di quella voce a dire che invece forse un senso c’è”. Ecco, per me Magris è sempre stato un’ancora. Quest’ultimo suo libro è invece un libro del pessimismo: il protagonista è un ex-stalinista, un triestino che nel romanzo si chiama Salvatore ...[continua]

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