Modou Gueye è presidente dell’associazione socio-culturale “Sunugal” che, oltre a favorire iniziative di interscambio culturale tra paesi del Sud e del Nord del mondo, opera in Italia per aiutare la popolazione immigrata extracomunitaria e in Senegal per sostenere lo sviluppo socio-economico delle aree di provenienza degli immigrati.

Sunugal è un’associazione che lavora su molti fronti, in Italia e in Senegal. Ci racconti come è nata e qual è l’idea che vi muove?
La storia di Sunugal parte nel 1995. Mi chiamò una Ong che mi propose un progetto, si trattava di creare un centro di taglio e cucito in Senegal. Così sono andato là, in Senegal, due volte, ma scrivere quel progetto si rivelò troppo complicato, bisognava rispettare certi criteri e una serie di meccanismi che per me erano troppo burocratici. Il centro di taglio e cucito non si fece mai. Ho fatto i calcoli di quanto ho speso in viaggi, ricerche, ore di studio con gli universitari di Dakar… e ho capito che con quei soldi e con più organizzazione avrei potuto realizzare, da solo, il progetto. Da quella consapevolezza è nata l’associazione Sunugal, con sede a Milano. Non è un’associazione di soli senegalesi, è aperta a tutti, a condizione che chi vi aderisce, italiano o straniero, sia disposto a essere attivo all’interno del progetto. Il fine ideale di un’associazione come la nostra è quello di creare il dialogo tra le culture. Si sente spesso ripetere che la ricchezza è diversità, ma queste non devono rimanere solo parole, è un concetto che deve radicarsi e farsi pratico: la saggezza è una bella cosa se compresa da qualcuno, ma la saggezza incompresa può impolverarsi per sempre. Molti dei nostri lavorano in modo indipendente, senza portarsi dietro il nome dell’associazione (chi lavora in carcere, chi con i rifugiati...) perché quello che ci interessa non è promuoverci, ma cercare di abbattere dei muri. Dunque creare il dialogo interculturale, conoscersi. Chi non ti conosce ti chiama “ehi!”, chi ti conosce ti chiama col tuo nome, ed è una cosa ben diversa. Noi lo sappiamo e partiamo da qui. Nella pratica facciamo cose diversissime, ma essenzialmente lavoriamo su due fronti: con gli immigrati qui in Italia e con alcune comunità in Senegal. Tutto è partito da questo secondo fronte.
All’inizio infatti, dopo i viaggi che avevo fatto e il fallimento del primo progetto di taglio e cucito, avevo scelto di lavorare solo con i senegalesi, in Senegal. Questo perché cominciavo a riflettere sul motivo che mi aveva portato qui. C’è qualcosa che mi ha portato in Italia, una mancanza, che va colmata. In questo senso bisogna lottare contro l’immigrazione. Quando si cercano le origini dei movimenti migratori spesso si usano grandi parole come “fame nel mondo”, “analfabetismo”, “guerre”... ma concretamente non si arriva mai alla radice del problema. Lavorare con i senegalesi in Senegal voleva dire, per me, arrivare al cuore della questione. Noi conosciamo i nostri problemi, ed è là che bisogna impegnarsi per promuovere lo sviluppo.
Ho iniziato nel mio villaggio, che in realtà è un quartiere, uno dei più degradati di Dakar, e mi è stato subito chiaro che non potevo che lavorare con le donne e i bambini, che sono gli unici rimasti: non ci sono più giovani nel mio villaggio, purtroppo, sono tutti nelle grandi città, in Europa o in America. Sappiamo qual è la causa di questi viaggi, di questo abbandono: se l’agricoltura funzionasse come dovrebbe io non sarei qui, ne sono sicuro; magari sarei analfabeta, come tanti, però non mi sarei mai mosso dal villaggio. Quando funzionava l’agricoltura la gente non viaggiava, non partiva per le grandi città.
Un tempo il Senegal era il quinto produttore mondiale di arachidi, non credo lo sia ancora, ma non importa. Si coltivavano arachidi per lo stesso motivo per cui in Mali si piantava il cotone: la Francia imponeva la monocoltura. E qui ci sarebbe un lungo discorso da fare. Comunque, coltivare arachidi non fa bene alla terra, la impoverisce, soprattutto se non hai i mezzi adatti per farlo. Così oggi vedo la mia gente che va a lavorare nei campi e mi chiedo con che coraggio lo faccia... coltivano nel deserto, non cresce quasi più niente, c’è solo terra secca. Chi ha imposto tutto questo non ha avuto l’intelligenza di dotarli di una tecnica che potesse dare buoni risultati anche nel lungo periodo e li ha lasciati un po’ in balia degli eventi.
Non parlo solo della Francia, ma anche del governo senegalese, che è stato cor ...[continua]

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