Danierle Novara è fra i fondatori del Centro di Educazione alla Pace, giornalista e redattore di Mosaico, la rivista di Pax Christi.

Cosa significa educare alla pace?
Bisogna distinguere i livelli: per me l’aspetto più importante dell’educazione alla pace è che dovrebbe portare alla luce ciò che non è educazione alla pace, ossia far emergere che determinati comportamenti e situazioni hanno delle rilevanze educative e non sono semplicemente dinamiche di tipo economico, politico, sociale, ma hanno un retroterra culturale. Un concetto su cui stiamo lavorando in questa rete di “educazione alla pace”, formata da una cinquantina di gruppi in tutta Italia, è proprio il fatto che esistano culture educative orientate in senso violento, autoritario, con conseguenze particolarmente gravi sul piano politico. Nel caso della guerra in Bosnia, ad esempio, è evidente l’influsso profondo di una certa cultura legata a stereotipi di tipo “machista” per cui l’uomo, per essere tale, deve sprezzare il pericolo. In questa cultura l’educazione dell’uomo è viriloide, bisogna comportarsi in un certo modo verso le donne, e da qui si può dedurre qualcosa in più anche sul piano della crudeltà, delle pulizie etniche, degli stupri. In altre parole non è che alcune situazioni storico-politiche come le guerre vengano per caso: si radicano in contesti che hanno una precisa matrice educativa. Per fare un altro esempio si potrebbe dire che la mafia, ancora prima di essere un’associazione per delinquere, è una cultura, una mentalità, un modo di intendere l’educazione. Il senso di appartenenza al gruppo, tipico della cultura mafiosa, è anche un modo di fare educazione, un’educazione che tende a creare nel soggetto dipendenza verso il proprio gruppo, estremamente invasiva, oppressiva, che nega l’alterità e per cui gli altri non esistono se non per i fini del proprio clan, della propria famiglia. Tutto questo si può definire come “educazione non intenzionale” e determinati luoghi comuni (“con le buone o con le cattive...”, “tirarlo su dritto...”, tutte frasi spesso usate soprattutto nei confronti dei bambini maschi) hanno una loro storia, spesso di sangue e di violenza. Ecco perché non è possibile un vero rinnovamento politico se non c’è anche un rinnovamento educativo. Premesso questo, cosa può fare l’educazione alla pace? Sarebbe già molto se riuscisse a svolgere un’azione critica su quanto detto fin qui, se riuscisse cioè a svelare come le culture educative agiscano nei nostri vissuti sociali. In ogni caso l’educazione alla pace può essere una proposta per aiutare gli adulti a fare dei percorsi di autoanalisi. Ad esempio, la nascita può essere un momento traumatico, in cui si vive il terrore, la sfiducia, la mancanza di rapporto, e tutta la vita si porterà il segno tangibile dell’indifferenza in una situazione di estrema debolezza. Ma la nascita può essere anche un momento di accoglienza e proporre il parto non violento, rispettoso dei tempi del bambino e della madre, è un modo per spezzare il meccanismo reiterativo del “parto con dolore”. Anche l’idea che l’educazione debba necessariamente far soffrire, altrimenti il “virgulto” non viene su bene, è terribile perché implica la possibilità che il soggetto, abituato come è a soffrire, non avverta la sofferenza degli altri. Ho accennato alla nascita per dire che l’educazione alla pace è un progetto complessivo, di rivisitazione delle pratiche educative tout-court, un tentativo di portare quello che è non intenzionale ad una maggior consapevolezza educativa, quindi anche ad una maggior consapevolezza di sé. Uno slogan che usiamo spesso è “gestione dei conflitti” e l’educazione alla pace non deve essere la rimozione dei conflitti, ma deve dare la capacità di affrontarli in modo diverso. Anche questo ha un retroterra comportamentale, di interazione: normalmente siamo abituati a vincere o ad arrenderci, non c’è apprendimento di una gestione democratica del conflitto, dell’accettazione, della crescita reciproca. Nel momento in cui un adulto vuole sempre avere ragione dal punto di vista educativo, quando, dal punto di vista sportivo, si educa alla vittoria a tutti i costi, ecco che riproponiamo una modalità inconscia di gestire i conflitti basata sul teorema “mors tua vita mea”. Cambiare questi postulati educativi vuol dire porre delle premesse per una reale cultura democratica, dell’accettazione, della capacità di gestire le situazioni in maniera mediata.
Si possono distinguere ambiti ...[continua]

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