Sono passati ormai cinquant’anni dall’indipendenza degli Stati africani. È possibile fare un bilancio?
Quando si parla di Africa, nel corso degli anni si sono sempre alternate delle versioni contraddittorie. Negli anni Settanta, dieci anni dopo l’indipendenza, già si parlava del fallimento degli Stati di sviluppo. Negli anni Ottanta, si rispose con il cosiddetto aggiustamento strutturale che non solo non ha funzionato, ma ha anche creato più problemi di quelli che ha risolto. Poi negli anni Novanta vi fu un momento di moderato ottimismo legato alla questione della democratizzazione, secondo il quale la democrazia era possibile solo attraverso un risanamento economico. Ma è durato poco. Subito dopo è iniziato un altro tipo di pessimismo, legato alla questione della povertà e alle difficoltà del continente africano di ridurre la forbice della disuguaglianza. Un rapporto della Banca mondiale di quel periodo riconosceva la crescita di questa diseguaglianza e sottolineava le difficoltà nel debellare questo fenomeno. Oggi il discorso sulla povertà rimane vivo quasi esclusivamente nel pensiero e nella denuncia delle Ong, mentre il pensiero mainstream parla solamente della rinascita dell’Africa, degli alti tassi di crescita economica di quasi tutti i paesi dell’Africa, anche di quelli con poche risorse e più poveri. L’ultimo numero dell’"Economist” riflette questa visione ormai ricorrente secondo cui l’Africa è cambiata, l’Africa sta rinascendo, sta crescendo.
Trovi che si tratti di una visione eccessivamente ottimista?
Di certo sono punti di vista che vanno contestualizzati. Per prima cosa bisogna mettere in evidenza due osservazioni. La prima è che questi tassi di crescita molto alti sono in gran parte dovuti alla rinnovata importanza delle materie prime e all’intervento della Cina, che è diventata il primo partner commerciale del continente, sopravanzando anche gli Stati Uniti, oltre che l’Europa. Si tratta del cosiddetto modello cinese, con un partito unico e autoritario e un modello economico che favorisce anche gli investimenti privati. Bisogna pensare infatti che i cinesi in Africa non sono solo i rappresentanti delle banche e delle aziende di stato, ma sono anche vari livelli di privato. Accanto alla Cina ci sono poi gli interessi dell’India e di altri paesi del Sud-est asiatico che si sono sviluppati negli anni Ottanta e Novanta, nonché una forte presenza di investimenti brasiliani, soprattutto nelle ex colonie portoghesi, Angola, Mozambico. Tutto questo movimento, per chi studia l’Africa da un po’ di tempo, suona molto familiare.
Che cosa esportava l’Africa al tempo della tratta? Una risorsa importante che erano le braccia, la forza lavoro. Che cosa esportava durante la colonizzazione e successivamente? Materie prime. E cosa esporta adesso? Uno sfruttamento molto intenso di risorse primarie. Risorse che prima erano difficilmente accessibili e sfruttabili a causa delle carenze infrastrutturali. La Cina, che è interessata a queste materie prime, investe moltissimo in infrastrutture soprattutto come dono, come metodo di penetrazione. Cosa che anche l’Europa ha fatto, ma in maniera limitata e considerando prioritario il calcolo costi e benefici.
Quindi, se è vero che i tassi di crescita aumentano, lo fanno all’interno di questo modello di sfruttamento delle risorse e di questo tipo di investimenti. Se non si riescono a creare delle sinergie produttive più sensate e se non faranno funzionare delle sinergie a livello regionale, la domanda di fondo è cosa succederà nei prossimi 30 anni, quando questo boom delle materie prime finirà. È già difficile in Europa, è facile prevedere che lo sarà molto di più in Africa.
Un secondo aspetto da considerare è che la maggior parte dell’Africa è ancora oggi Africa rurale. Vive e produce in ambito rurale. E in questo ambito, la questione che sta venendo alla luce, non nuova, ma sempre più clamorosa, è quello di come vaste regioni vengano date in affitto ad aziende straniere. Si tratta del cosiddetto fenomeno del land grabbing, ed è un fenomeno che non riguarda solo la Cina. In alcuni casi, non si tratta di investire in attività agricole, ma in produzioni che sono interessanti per noi, per esempio il biofuel, oppure, cosa persino più grave, il taglio delle foreste che, non c’è bisogno di dirlo, sta creando veri e propri disastri ecologici e umani.
A cinquant’anni ...[continua]
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