Sandro Bellassai, storico, insegna Storia contemporanea presso l’Università di Bologna. Ha pubblicato, tra l’altro, La mascolinità contemporanea, Carocci, 2004, e L’invenzione della virilità, Carocci, 2011. è membro dell’associazione "Maschileplurale”.

A partire dagli anni Settanta, le donne, ponendo la questione di genere, hanno costretto anche gli uomini a pensarsi in quella chiave, cioè a interrogarsi sul proprio essere maschi.
Gli uomini hanno sempre fatto resistenza a questa rottura. Penso ci siano diversi motivi. Il primo è che perdura, nel senso comune, l’equivalenza "genere uguale donne”, quindi, ogni qualvolta parliamo in chiave di genere, tutti pensano immediatamente che stiamo parlando di qualcosa che riguarda le donne. Ma c’è una ragione più antica e profonda che riguarda la storica identificazione degli uomini con il neutro, cioè con un soggetto che pretende di non avere specificità, di essere, cioè, universale. Che poi è una caratteristica di tutti i soggetti, fra virgolette, dominanti.
Si tratta di una dinamica che ha riguardato lo stesso femminismo statunitense, un femminismo -come hanno fatto notare le donne nere- che era fatto di donne bianche. Di nuovo, la "bianchezza” era scomparsa in quanto attributo del soggetto dominante.
Gli attributi del soggetto dominante si rendono, o tentano di rendersi, invisibili. Si tratta di un privilegio della posizione del potere. Il che spiega, secondo me, anche una certa resistenza maschile a pensare la mascolinità in quanto genere. Non è soltanto questione di dover spiegare all’uomo che i generi sono più di uno. Gli uomini sono affezionati all’impersonalità, alla neutralità, prerogative della posizione di potere.
Quella operata dai movimenti delle donne a partire dagli anni Sessanta -in Italia piuttosto negli anni Settanta- è stata pertanto una rottura radicale, politica, che col tempo ha investito un po’ l’intera società. Oggi non sono solo gli uomini impegnati, militanti, a riconoscere un cambiamento: nel senso comune è ormai sempre più diffusa l’idea che anche gli uomini siano un genere.
Pensiamo solo ai cambiamenti che ci sono stati nei ruoli familiari, parentali; oggi si parla molto dei "nuovi” padri e di un nuovo rapporto con i figli e le figlie, con l’infanzia.
Nelle generazioni cresciute negli anni Cinquanta e Sessanta gli uomini delegavano il lavoro di cura e di educazione alle donne. Oggi gli uomini rivestono nuovi ruoli, e non soltanto perché le donne glielo chiedono, ma anche perché ci tengono, sentono una risonanza, qualcosa di buono, che arricchisce la loro vita. Oggi, fuori dagli asili, dalle scuole si vedono un sacco di uomini, di padri.
In un radio-documentario di radio3 di qualche anno fa, nell’ambito di una trasmissione sulla gravidanza, il parto, la genitorialità, una puntata era stata dedicata specificamente ai padri. Uomini normali che raccontavano, tra l’altro, di come, dopo aver accompagnato i figli e le figlie all’asilo, un paio di volte a settimana se ne andassero al bar con altri padri e si ritrovassero a parlare di pediatri, pannolini, malattie... Uomini che rivendicavano un coinvolgimento emotivo come qualcosa di assolutamente naturale, di cui anzi andare orgogliosi. Riappropriandosi insomma di una sfera emotiva che invece è sempre stata problematica per gli uomini.
Già ai tempi dei primi movimenti emancipazionisti, di fronte alla minaccia della femminilizzazione del maschio, della femminilizzazione dell’intera società, c’è stato anche un rilancio del virilismo, che nella storia italiana abbiamo visto culminare durante il fascismo. Ecco, l’impressione è che quel virilismo, pure se scomparso come modello egemonico, sia sopravvissuto in un modo informale, molecolare.
È così. Questa è un’evoluzione che possiamo osservare in molte dinamiche di potere, anche a livello macro.
Pensiamo al colonialismo: se prima c’era un esplicito rapporto di dominio con certi popoli, con certe zone del mondo, per cui il saccheggio, lo sfruttamento, la rapina si fondavano e giustificavano sulla base di una qualche forma di superiorità, in un secondo momento, non è che il saccheggio e la rapina siano terminati, però è come se non si potesse più legittimarli apertamente in modo gerarchico. È come se fosse venuta meno la dicibilità di questa gerarchia, ma non la sua sostanza. È una specie di de-istituzionalizzazione: non è più possibile ergere tutto questo a norma, a regola fondativa dell’ordine sociale, però sotter ...[continua]

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