Ci puoi raccontare la storia tua e di tuo padre, Bruno Sattler?
Sono nata a Berlino nel giugno del 1942, nei pressi del vecchio aeroporto di Tempelhof. Noi cosa fosse la guerra lo sapevamo, dopotutto siamo cresciuti tra le macerie, ma questo era tutto. Per me era perfettamente normale che mio padre non fosse a casa, non era una cosa degna di nota e non ha giocato pressoché alcun ruolo nella mia vita di bambina. Era la stessa situazione in cui si trovava circa la metà dei bambini della mia classe: i padri non avevano fatto ritorno dalla guerra. Nel 1953 però accadde qualcosa che creò grande scompiglio nella mia famiglia. Per una coincidenza del tutto fortuita, scoprimmo che mio padre non era morto: sottoposto a un processo segreto, era stato condannato all’ergastolo e si trovava in un carcere della Repubblica democratica tedesca. Sulla base di quanto lui stesso avrebbe affermato nel corso degli interrogatori, gli venivano imputati crimini di guerra compiuti soprattutto in Jugoslavia. Io avevo sempre saputo che mio padre aveva lavorato per la polizia sotto il nazismo, ma non tutti i poliziotti nazisti erano assassini e picchiatori. Esisteva tra loro una piccola percentuale di brave persone e una di queste era mio padre. Un fatto comprovato anche dal suo certificato di morte, rilasciato a mia madre dal Senato di Berlino-Ovest nel 1949, che attestava anche la sua "denazificazione”. Quando venne fuori che mio padre era ancora vivo, mia madre informò immediatamente le autorità di Berlino-Ovest chiedendo loro che cosa si dovesse fare. Le dissero che doveva far pervenire una copia della sentenza dalla Ddr. Una totale assurdità, non era una cosa che si potesse fare. Mia madre però ci riuscì. Convinse qualcuno ad andare a rubare il documento tra gli atti dell’avvocato e si presentò al Senato di Berlino-Ovest che, per la seconda volta, proclamò l’innocenza di mio padre e l’iniquità del giudizio della Ddr che lo condannava. Da allora in poi mio padre venne trattato come un ufficiale in carica della polizia di Berlino-Ovest: mia madre otteneva il suo stipendio, in seguito la sua pensione e, dopo la sua morte, avvenuta in circostanze non chiare nel 1972 in un carcere della Ddr, la pensione di reversibilità. Inoltre, ricevemmo un rimborso molto cospicuo per i 25 anni di prigionia scontati ingiustamente da mio padre. A partire dall’età di 16 anni ci si poteva recare nelle carceri della Ddr e io feci visita a mio padre tre o quattro volte. Come queste visite in carcere si svolgessero è una storia che andrebbe raccontata a parte. Era qualcosa di incredibile. Io e mia madre venivamo sempre sottoposte a interrogatori interminabili. Una volta il treno su cui mi trovavo venne fatto fermare in non so quale paesino, mi costrinsero a scendere e fui caricata senza complimenti sul treno che procedeva nelle direzione opposta e rispedita a casa.
Mia madre all’epoca lavorava come segretaria per un’associazione di funzionari della polizia. L’ufficio dell’organizzazione aveva la sua sede nell’appartamento in cui vivevamo e questo ha fatto sì che io fossi circondata tutto il tempo da poliziotti che non facevano che tessermi le lodi di mio padre ed esprimere dispiacere per il terribile destino che gli era toccato. C’erano un sacco di testimonianze che confermavano che mio padre aveva sempre agito correttamente e si era impegnato per evitare mali peggiori. Ricordo, per esempio, una lettera che Maud von Ossietzky aveva mandato a mia madre: la vedova del Premio Nobel Carl von Ossietzky vi manifestava tutta la sua gratitudine per l’umanità con cui mio padre, incaricato della sorveglianza del marito, le aveva permesso di assistere quest’ultimo nelle sue ultime settimane di vita.
Poi arrivò il 68...
Anch’io partecipai alle dimostrazioni contro la guerra in Vietnam, nel 1966-67. Eravamo impegnati in politica con un’intensità eccezionale. Si dice: "La generazione del 68 ha ottenuto ...[continua]
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