Ricordi dov’eri e di cosa ti stavi occupando dieci anni fa, alla vigilia del referendum?
Nel 2011, l’anno del referendum, mi trovavo già a Cocabamba, città della Bolivia nel cuore dell’America Latina, situata in una valle nel cuore dell’altipiano andino, e lavoravo già con il Cevi, una ong di Udine, in progetti di cooperazione per garantire l’accesso all’acqua alle popolazioni boliviane residenti in zone periurbane o rurali. Così anche io in qualche modo, nonostante i quindicimila chilometri di distanza, ho cercato di contribuire alla campagna referendaria con la diffusione di contenuti, messaggi, promozione delle iniziative che venivano realizzate sul nostro territorio regionale e anche parlando a lungo con familiari, amici e conoscenti per convincerli ad andare a votare, spiegando l’importanza che aveva questo referendum per me e per tutta la società italiana, direi per tutto il mondo.
Così anche in Bolivia mi sono impegnato molto con il movimento latino-americano per l’acqua, in particolare cercando di essere molto attivo in una rete che accoglie sindacati, imprese pubbliche, ong, università e movimenti popolari, insomma, enti e associazioni che dal Messico all’Argentina si battono per il riconoscimento dell’acqua come diritto e bene comune e contro la sua privatizzazione.
La gestione dell’acqua come bene comune quali successi ma anche quali ostacoli e problemi ha incontrato a Cochabamba?
La prima conseguenza della guerra dell’acqua a Cochabamba è stata la rimunicipalizzazione dell’impresa Semapa, con l’annullamento del contratto di privatizzazione. Tuttavia questo passaggio ha generato una contestazione, perché la popolazione che si era mobilitata in strada non voleva ritornare a un’impresa municipale gestita con le stesse modalità di inefficienza e con un livello altissimo di corruzione al suo interno. Così è partito tutto un dibattito su cosa sia il pubblico, cosa significhi rendere di nuovo pubblico un bene comune come l’acqua, con da un lato lo Stato e dall’altro un “pubblico sociale”, cioè gestito dalla popolazione e soprattutto dalle comunità organizzate.
La mobilitazione dell’acqua, infatti, è stata anche uno strumento per rivendicare una gestione comunitaria che, almeno in Bolivia, è presente in tantissimi territori; probabilmente più del 50% della popolazione della Bolivia riceve acqua da contee, associazioni, cooperative, varie configurazioni, comunità organizzate che si costituiscono attorno a una fonte d’acqua che può essere una sorgente, un pozzo o anche un serbatoio o una rete idrica.
Questa mobilitazione rivendicava anche la legittima aspirazione di queste comunità, di queste associazioni, di possedere l’acqua, di usarla e gestirla. Un altro dei problemi fondamentali nella gestione dell’acqua è in relazione ai processi decisionali: chi deve prendere decisioni e con quali criteri? In questo senso la guerra dell’acqua è stata anche un modo per rivendicare la sovranità del popolo boliviano, la sua autodeterminazione non solo relativamente alle pratiche organizzative, ma anche rispetto al potere decisionale per la gestione dell’acqua e della vita comunitaria.
Voi come collaborate con queste realtà e come avete sostenuto questo processo?
Abbiamo per prima cosa messo a disposizione dei fondi e delle competenze per migliorare le infrastrutture. Sappiamo che l’accesso all’acqua è sempre mediato dalle infrastrutture, dalla tecnologia, quindi aiutiamo le comunità locali ad acquisirle e a migliorarle.
Ovviamente per questo è necessario comprendere come funziona la gestione dell’acqua in uno specifico territorio, perché questa si declina in maniera diversa nelle varie comunità. Le strutture organizzative sono differenti, le relazioni sociali anche, così è fondamentale riunirsi, discutere con la comunità e stabilire come permettere a una nuova infrastruttura di funzionare e di garantire benefici nel tempo. Lavorando in Bolivia abbiamo imparato che una struttura, anche se disegnata in maniera adeguata, non è scontato che possa portare i risultati previsti se dietro non c’è una organizzazione e un insieme di norme e regole che permettano alla comunità di autogestirla. Io credo che queste gestioni comunitarie ci siano sempre state, si sono sviluppate a margine dello Stato e delle istituz ...[continua]
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