Insegnare a fare delle domande
problemi di scuola
Una Città n° 278 / 2021 ottobre
Intervista a Clotilde Pontecorvo
Realizzata da Barbara Bertoncin
INSEGNARE A FARE LE DOMANDE
L’inadeguatezza dell’attuale sistema di formazione degli insegnanti, in particolare delle secondarie, che tradisce l’idea, ancora invalsa, che basti conoscere una materia per saperla insegnare; le figure del tutor e dell’insegnante accogliente, che vanno tuttavia potenziate; il problema della motivazione e del rapporto scuola-università; il rischio, grave, di sprecare l’enorme potenziale delle nuove leve. Una conversazione tra Clotilde Pontecorvo e Anna Lona.
Clotilde Pontecorvo è professore emerito di psicologia dell’educazione alla Sapienza di Roma. Si è occupata di curricolo e sviluppo cognitivo in diverse aree, di formazione degli insegnanti, di continuità educativa, di acquisizione della lingua scritta, di sviluppo di concetti sociali attraverso il discorso e la discussione, di rapporti tra argomentazione e pensiero in contesti educativi, familiari e scolastici.
Anna Lona, già maestra elementare, è docente e formatrice ed è stata tutor coordinatore presso Scienze della formazione primaria di Padova nella sede di Verona.
Hai recentemente promosso, attraverso il Centro Studi Clotilde & Maurizio Pontecorvo, una serie di webinar rivolti agli insegnanti in servizio su diversi argomenti: l’ascolto degli allievi, la valutazione a scuola, la didattica a distanza, l’insegnamento della storia contemporanea, l’apprendimento della lingua scritta, la formazione iniziale degli insegnanti e il reclutamento e la formazione dei docenti secondari. Vorremmo parlarne ora con te anche a partire dalla tua lunga esperienza.
Clotilde. Forse è una sciocchezza, ma, fin da quando ho cominciato a leggere e a scrivere, volevo insegnarlo agli altri: la mia nonna paterna aveva una domestica analfabeta e io pretendevo di alfabetizzarla. Mio padre era morto due mesi prima che io nascessi, quindi a crescermi è stata mia madre, una donna che amava molto studiare; infatti, nonostante a casa sua fossero otto figli, lei è riuscita, dopo il diploma magistrale, a studiare il greco per sostenere l’esame di maturità del liceo classico per potersi iscrivere all’università e studiare Lettere a Sant’Ivo alla Sapienza, dove poi ha conosciuto mio padre che studiava Legge. Si è sposata a 22 anni senza completare gli studi universitari, tuttavia mi ha trasmesso proprio questo gusto per lo studio. Non solo, è stata lei, che non conosceva alcuna lingua straniera, a farmi imparare il francese e l’inglese già da bambina e io, a mia volta, li volevo insegnare alle mie amichette. Questo per dire che tutta la mia vita è stata accompagnata da questa idea per cui quello che so lo voglio insegnare o comunque dire a qualcuno. Prima di compiere ottant’anni ho conseguito il diploma del corso di studi ebraici a Roma, con una tesi su Walter Benjamin; mi sono divertita molto a fare lo studente e subito ho avuto voglia di condividerlo con gli altri. In questo momento cerco di farlo spesso con la mia collaboratrice, una brillante traduttrice e insegnante di lingue, di origine brasiliana. Ancora adesso, ogni tanto le propongo le mie conoscenze, soprattutto di midrash. Il midrash è l’interpretazione narrativa dei testi biblici, che è molto aperta, appassionante: tutti possono fare midrash, purché si possa provare quello che si sostiene con dei dati linguistici o contestuali. Ricordo che quando insegnavo Analisi del discorso alla Facoltà di Psicologia, avevo degli studenti che dicevano: “Ah, il suo corso è bellissimo, però i suoi collaboratori dicono cose diverse da lei”, e io rispondevo: “Ottimo, ma pure voi potete dire delle cose diverse, basta che proviate le vostre tesi sui dati discorsivi”.
Ma lei mi chiedeva della formazione degli insegnanti. Appena laureata ho fatto l’abilitazione, poi ho vinto il concorso tra la nascita della mia prima figlia e quella della seconda, tanto che, il giorno che dovevo fare lo scritto, il mio ginecologo mi aveva messo in guardia perché temeva che io potessi partorire, ma avevo fatto i conti meglio di lui ed ero tranquilla. Il concorso l’ho vinto, ma già allora ero totalmente contraria alle modalità dei concorsi. A noi si chiedevano i papi, gli imperatori e io li avevo imparati a memoria. Dopodiché il mio primo articolo è stato un commento critico sulle modalità dei concorsi degli insegnanti, che mi pare non siano cambiati molto.
Uno dei nodi della questione ruota attorno al fatto che conoscere le materie non vuol dire saperle insegnare.
Clotilde. Purtroppo siamo ancora a quel punto. L’idea è che se tu sai la tua materia si dà per scontato che con quei pochi crediti delle cosiddette materie psicopedagogiche la saprai anche insegnare (cfr. scheda di Nicoletta Lanciano a p. 20). Niente di più sbagliato...
Anna. Questo è il vero punto debole del sistema. Anche l’ultimo decreto che regolamenta i criteri e la formazione iniziale degli insegnanti mantiene una differenza radicale tra la formazione per la fascia infanzia primaria e quella per la fascia secondaria, primo e secondo grado. Allora, per la primaria, le competenze disciplinari e quelle psicopedagogiche e relazionali vengono acquisite assieme, cioè lo studente che diventerà insegnante, nell’arco di cinque anni obbligatori, impara le discipline, ma poi, contemporaneamente, partecipa a dei laboratori per sperimentare la parte didattica e anche la parte inclusiva e, soprattutto, fa il tirocinio. Parliamo di seicento ore di tirocinio.
Viceversa, per i docenti della secondaria, una volta presa la laurea, sono sufficienti 24 crediti di materie genericamente psico-pedagogiche. Tra l’altro questa offerta può essere gestita dalla stessa facoltà, cioè, la Facoltà di Fisica, per esempio, può offrire questi corsi al suo interno, oppure lo studente può conseguirli dopo la laurea. E questo già è un elemento di caos. Ma il dato più preoccupante è che in questa fase non è previsto alcun momento di pratica, di tirocinio, come avveniva invece con la Ssis, la Scuola di Specializzazione all’Insegnamento Secondario.
Clotilde. Io ho diretto la Ssis delle Sette Università del Lazio per sei anni. È stato un impegno enorme. Nella Ssis insegnavo Psicologia dell’educazione, ma ovviamente là davo un’impostazione molto diversa rispetto al normale corso che tenevo nella Facoltà di Psicologia. Le Scienze dell’educazione devono essere adeguate al compito specifico di formazione dei docenti. Tu insegni Sociologia? Bene, a che cosa serve la Sociologia a un insegnante? A capire come sono gli studenti, le loro dimensioni sociali. Insomma, non si trattava di studiare per l’esame, di saper raccontare la disciplina; tutto doveva essere funzionale al compito specifico. Per questo trovo la richiesta dei crediti psico-pedagogici un’assoluta follia, non ricordo nemmeno chi li abbia inventati.
Comunque, secondo me, per la formazione dei docenti, ci sono tre macro-questioni. La prima è che i nuovi insegnanti che entrano nella scuola devono essere una leva di cambiamento, devono sollecitare, smuovere, invece oggi, quando entrano nel mondo della scuola, restano una sorta di “accidente”, proprio nel senso di Aristotele: sono presenze assolutamente casuali e ininfluenti.
Questo è un peccato perché il neofita potrebbe portare innovazione, anche proprio attraverso la pratica. Non a caso, nelle Ssis avevamo previsto un rapporto forte con la scuola esistente attraverso la funzione degli insegnanti supervisori che erano insegnanti con un curricolo specifico e sostenevano un concorso pubblico per assumere questo ruolo, mantenendo il loro insegnamento a tempo parziale, per cui non si distaccavano dalla scuola: metà del loro orario lo facevano nella scuola di specializzazione dove coordinavano i tirocini degli studenti, mentre l’altra metà la svolgevano nella scuola di provenienza.
Partiamo dalla scuola primaria: qual è oggi il percorso formativo previsto?
Anna. Da noi il sistema funziona così: gli studenti dal secondo anno iniziano il percorso di tirocinio guidati da due figure, anzi tre: un tutor organizzatore, che ha il compito di coordinare soprattutto i rapporti con le scuole e tutta la parte organizzativa e burocratica; poi dei tutor coordinatori, dei supervisori (che superano un concorso dove valgono dei titoli ma, soprattutto, devono avere delle esperienze significative maturate nella scuola, di conduzione di gruppi, di formazione). La terza figura è il tutor accogliente, cioè, l’insegnante che nella scuola accoglie lo studente o la studentessa per quattro anni. Delle seicento ore che ricordavo, infatti, più di metà sono di tirocinio diretto, cioè attività che lo studente fa in prima persona, a scuola. Il tutor accogliente è una figura molto importante che accompagna lo studente nel suo “provarsi” nell’attività didattica, ma non è prevista nella formazione alla scuola secondaria.
Poi è verissima la questione che poneva Clotilde, sull’incidentalità di queste figure che entrano nella scuola. In effetti non c’è alcuna riflessione su come capitalizzare questa presenza, come farla giocare nel rapporto insegnante-in-formazione e scuola. Io ho fatto la tutor accogliente, ed è vero che tutto rischia di rimanere limitato al rapporto con lo studente o la studentessa...
Clotilde. Io sono convinta che la presenza di un nuovo insegnante nella scuola dovrebbe essere, oltre che un collegamento importante tra la scuola e l’università, un seme di innovazione per tutti. Inoltre, l’insegnante accogliente ha un ruolo molto importante non solo perché accoglie lo studente nella sua classe, lo guida, lo aiuta, ma perché allo stesso tempo può ricevere da lui/lei degli stimoli innovativi, perché, per esempio, avrà studiato la fisica più recente o la filosofia in un modo diverso. Attualmente, invece, niente di tutto questo avviene. Perché? Perché non è previsto. Tanto più che, come dimostra nella sua scheda Andrea Gavosto della Fondazione Agnelli, l’attuale immissione in ruolo dei docenti delle graduatorie ministeriali avviene per i laureati che hanno insegnato almeno due-tre anni in una scuola statale; senza quindi aver compiuto alcun percorso formativo del tipo delineato sopra.
Anna. È un tema spinoso. Certo così si mortificano le potenzialità degli insegnanti usciti dai percorsi di formazione perché alla fine quello che succede è che finché fanno il tirocinio le scuole se li contendono per fare le supplenze, ma poi...
Questo è un problema perché l’innovazione tu la garantisci se l’ingresso di queste forze nuove avviene con un minimo di massa critica; se questi giovani insegnanti entrano uno qua e una là, il sistema li fagocita; se invece l’ingresso avviene con una certa forza anche quantitativa, casomai non nello stesso posto ma in contemporanea, alcuni fili che si stabiliscono durante la formazione poi rimangono e diventano scambio, valore aggiunto.
Tutto questo ha a che fare anche con la scarsa attenzione per la dimensione della ricerca educativa e didattica. Potete raccontare?
Clotilde. Allora che cos’è la ricerca didattica? È una ricerca che ha la scuola come soggetto e oggetto. La prima cosa da chiarire è che la ricerca didattica si fa nella scuola, ma poi ci vogliono anche gli esperti, quindi l’università, che però a sua volta ha bisogno di rimanere in contatto con la scuola, sennò il risultato sarebbe molto insoddisfacente. Se il triangolo scuola-ricerca-università funziona, tutto si tiene.
Personalmente ho scoperto la ricerca didattica tanti anni fa con due fisici, Matilde Vicentini e Paolo Guidoni, mancati entrambi, purtroppo, proprio quest’anno. Eravamo co-genitori nella scuola elementare dei nostri figli (Montessori, di via S. Maria Goretti, Roma) e abbiamo fondato il Gruppo Università-Scuola, il Gus, che comprendeva anche Lydia Tornatore, la grande pedagogista di Firenze, e poi insegnanti elementari e delle medie. È stato così che abbiamo iniziato a fare ricerca con gli insegnanti. Mi ricordo ancora, ad esempio, una bellissima ricerca fatta da una docente romana con i suoi allievi durante la giornata studiando la pazienza materna. Ma le esperienze interessanti furono tante. Una di queste insegnanti, moglie di un professore di Matematica, faceva molto discutere nella sua classe. Ho studiato accuratamente le loro discussioni e l’aspetto molto interessante era che i bambini si parlavano a vicenda. Uno diceva una cosa e l’altro interloquiva, tanto che noi parlavamo di un “effetto qui quo qua”.
Comunque, la nostra prima ricerca la svolgemmo nel doposcuola facendo osservare a gruppetti di bambini il rimbalzo di alcune palle. Come psicologa avevo organizzato l’osservazione mentre i fisici avevano preparato le esperienze. Tuttavia tutto avveniva nell’ambiente della scuola.
Anna. Rimango sul tema ricerca-scuola-università. Io credo che l’insegnante in formazione, nel corso del tirocinio, potrebbe diventare l’occhio dell’università, uno sguardo sulle dinamiche di un’istituzione soggetta a continui cambiamenti; uno sguardo che permetterebbe all’accademia di riflettere non in astratto, ma su quello che succede e di restituire poi queste sue riflessioni alla scuola, agli insegnanti. Questa sarebbe un bellissima sfida, però presupporrebbe una disponibilità dell’università e al contempo un interesse, un’apertura, da parte dei dirigenti scolastici.
È chiaro che se tu invece lasci l’insegnante da sola, ti può capitare quello che ti manda a far fotocopie come invece quello che ti fa fare un’esperienza significativa. Anche rispetto ai temi, sarebbe importante oggi individuare alcuni filoni attorno ai quali la ricerca potrebbe concentrarsi, per esempio la valutazione o la famosa storia delle competenze, che è un problema gigantesco…
Un altro tema -qui penso alla primaria- sarebbe la didattica della storia: è un problema o no? A parte che ogni cinque anni cambiano i contenuti, prima fino alla contemporaneità, dopo fino all’antica Roma, dopo fino all’antica Roma però prevedendo delle incursioni sulla contemporaneità… Certo così è difficile portare innovazione. Alla fine l’insegnante che arriva a scuola apre il sussidiario e segue quello…
Negli ultimi decenni ci si è molto interrogati su come e cosa insegnare a dei ragazzini che le informazioni le possono trovare dappertutto…
Clotilde. Il fatto è che la scuola, a mio avviso, deve rinunciare a essere una fonte primaria di informazione, lavorando invece molto sulla costruzione di strumenti critici. L’uso di internet, per esempio, richiederebbe un grande sviluppo di capacità critiche. Emilia Ferreiro (grande psicolinguista argentina) mi ha raccontato che lavorando con alcuni studenti, era emersa la domanda sul perché nelle mummie egiziane da un certo punto in poi non ci fosse più il cuore. Ecco, porre un problema, andare a indagare cos’è cambiato in quella cultura, quando e perché... Si possono fare ricerche appassionanti perché i dati ce li hai, ma devi avere le domande. Sapete cosa diceva il matto dello Shtetl, il villaggio ebraico polacco? Lui andava in giro e diceva: “Io ho la risposta! Ma chi ha la domanda?”. Bisogna sapersi porre le domande.
Quindi la scuola dovrebbe insegnare a fare le domande…
Clotilde. Esatto. Insegnare a fare delle domande, che poi significa porsi dei problemi.
Anna. Perché le risposte si possono trovare anche fuori dalla scuola. Anche in rete ci sono materiali straordinari...
Clotilde. Il punto è sapere utilizzare la rete, saper fare una ricerca, individuare le fonti adeguate.
Anna. Temo tuttavia che oggi la scuola non sia in grado di svolgere questo compito, anche per motivi oggettivi: l’accelerazione è stata così intensa che il processo di assestamento resta difficoltoso... Basterebbe pensare al destino delle nuove dotazioni tecnologiche: tu hai messo nelle scuola decine di Lim, che però vengono utilizzate come una televisione. La potenzialità interattiva a cui faceva riferimento Clotilde, per cui se tu devi cercare perché la mummia egizia non ha più il cuore, quali siti vai a vedere? Di quali ti fidi e di quali no? Quali sono i criteri? Ecco, questo lo fai se padroneggi lo strumento interattivo. Allora qua c’è il grosso problema della formazione alle tecnologie degli insegnanti. Quello che mi verrebbe da dire è che gli ultracinquantenni ormai li tieni come sono e investi sui nuovi.
Clotilde. Eh, sì, però l’età media degli insegnanti è quella.
Anna. Paolo Fabbri parla di noi insegnanti come di “migranti digitali”, di quelli tosti però. Allora qui o tu inserisci nella scuola delle figure che si occupano di facilitare questo passaggio aggiornando noi “migranti” solo sul pezzo della didattica, oppure fai un investimento serio sui nuovi, che però non possono essere quelle 12-16 ore di laboratorio di tecnologie per la didattica. Tanto più che l’informatica, la tecnologia la impari se la pratichi.
Clotilde. È proprio così: serve una pratica, aggiungo, personale. Perché il nostro criterio è che la formazione dei docenti deve essere a livello adulto, cioè, tu non puoi insegnare per insegnare, devi innanzitutto imparare tu in un modo aperto, diverso. Quando creammo il Gus, per prima cosa organizzammo dei corsi per noi; eravamo divisi in aree, io mi occupavo dell’area storico-sociale, Matilde Vicentini della matematica, Guidoni della fisica; poi c’era Gianfranco Staccioli per il gioco, e Lydia Tornatore che mi pare facesse la logica. Ricordo che era la settimana della tragedia di Salvador Allende, quindi erano giornate emotivamente molto intense. Però stavamo tutti insieme e ciascuno doveva fare il corso per gli altri, cioè preparare qualcosa che sollecitasse il gruppo. Fu un successo favoloso, perché eravamo tutti sullo stesso piano con un doppio ruolo in quel contesto di scoperta e formazione. Pensa che i primi scritti del Gus uscirono come note di ricerca dell’Istituto di Fisica Guglielmo Marconi di Roma, perché erano stati loro a darci degli spazi di riunione, ad aprirci le porte!
Il recente concorso sulle cosiddette materie Stem, le discipline scientifico-tecnologiche, pare sia andato molto male...
Clotilde. Purtroppo va detto che la formazione universitaria non è oggi sempre adeguata. Noi all’epoca abbiamo studiato molto bene nel corso di laurea in Filosofia, avevamo dei bravissimi professori; c’erano pure ancora dei professori fascisti. Vittoria Gallina riuscì con altri colleghi a mandarne via uno che faceva degli errori madornali per ignoranza.
Comunque è indubbio che anche l’università è messa male e questo si ripercuote sulla preparazione degli studenti che dovranno poi diventare insegnanti. Voglio dire, hai una bella voglia a fare didattica della matematica non euclidea, o a escogitare delle formule innovative per la didattica della fisica quantistica, ma può essere che quelli a cui ti rivolgi non conoscono bene la geometria euclidea o la fisica di Galilei. Se non sai la materia, la didattica non può compensare le mancanze.
Allora, è evidente che c’è un problema di reclutamento e anche di formazione, la quale può essere contemporanea, o successiva (come risulta dalla scheda di Gallina). Da questo punto di vista in Europa la situazione è variegata. Assieme ad altri studiosi, siamo giunti alla conclusione che sarebbe preferibile fare prima il concorso, ammettendo sulla base delle conoscenze disciplinari. Qui però si apre subito un altro problema che è quello delle prove di accesso ai concorsi. Il Ministro Bianchi ha proposto di fare prove “oggettive”, ma quanti docenti delle future commissioni le saprebbero fare? Personalmente le ho apprese dal libro fondamentale di Gattullo sulla docimologia e poi lavorando con il Prof. Visalberghi nelle prove per la prima ricerca internazionale Iea (Institute for Educational Achievement).
La scuola finlandese da anni viene portata ad esempio di efficacia ed equità, ma solo il decimo degli insegnanti che si candida riesce a entrare, dopodiché quello dell’insegnante è un mestiere molto prestigioso e anche ben pagato...
Clotilde. È tutto collegato. Io sarei favorevole a una maggiore selezione in entrata. Per gli insegnanti sarebbe assolutamente necessaria. Per i professori universitari ancora di più!
Negli anni Ottanta, il Ministero della Pubblica Istruzione mi diede la possibilità di organizzare un incontro internazionale sulla formazione degli insegnanti; venne anche un professore di Kiel (Germania), che era il direttore della formazione in matematica degli insegnanti tedeschi, che ci chiese: “Quanti mesi di stipendio ci vogliono a un maestro italiano per comprarsi un’utilitaria?”. Ai tedeschi ne bastava uno; a un italiano ce ne volevano cinque.
Anna. Questo ragionamento vale anche per la figura del tutor, centrale nella formazione. Ecco, per dire, in questo impianto il tutor dovrebbe essere a costo zero, com’è possibile? In alcuni istituti si negozia un forfait di cinque ore all’anno. Ma già questo sminuisce e svilisce l’intero impianto. Cioè collaborare con una giovane futura insegnante aiutandola a fare progetti non è una cosa banale, non si tratta di fare delle fotocopie.
Clotilde. La mia prima esperienza di insegnante, appena vinto il concorso, è stata a Sessa Aurunca. La mia seconda figlia, che aveva meno di un anno, imparò subito a dire quando doveva fare pipì: cosa fondamentale! Uscivo la mattina da casa alle sei e mezza, avevo il treno alle sette, arrivavo a Sessa Aurunca Scalo alle otto e mezza, poi dovevo prendere il pullman insieme a qualche gallina viva perché i contadini le portavano al mercato! Successivamente ho insegnato al liceo magistrale a Roma e ai miei studenti facevo fare il tirocinio nelle scuole elementari, perché era compito del professore di filosofia e pedagogia, come ero io. Ci divertivamo moltissimo. Se tu chiedi a un insegnante di accogliere dei ragazzi, devi dargli tempo e risorse.
Anna. Allora il diploma ti dava l’accesso al concorso, adesso invece è prevista la laurea. Ebbene, io ho fatto una piccola indagine e ogni università fa un po’ quello che vuole, con differenze anche significative, per esempio nell’organizzazione dei laboratori. Nelle università le seicento ore di tirocinio poi sono diversamente distribuite nei quattro anni fra diretto e indiretto. Mi chiedo se non sarebbe il caso di ristabilire alcuni criteri a livello nazionale. Per molti anni sono prevalse spinte forti sul decentrare, sull’autonomia delle istituzioni; non sono sicura sia la strada giusta...
Clotilde. Un coordinamento tra le università è assolutamente necessario.
Anna. Adesso in Scienze della formazione primaria ogni facoltà decide i test d’ingresso. Comunque, quello che è certo è che per gli insegnanti secondari è fondamentale l’integrazione tra corsi disciplinari, inclusa la Didattica disciplinare, e corsi di Scienze dell’educazione. E poi l’integrazione tra laboratori e tirocini. Cioè che il tirocinio abbia un riscontro in un laboratorio didattico, perché ci sia il tempo di discuterlo, di analizzarlo, di riflettere sulla pratica. Un’altra cosa essenziale sarebbe che gli insegnanti capissero se vogliono davvero fare questo lavoro...
La generazione del ’68 era entrata con una grande spinta ideale. Oggi, qual è la situazione? E quand’è che un futuro insegnante capisce se quella è davvero la sua vocazione?
Clotilde. È molto difficile. Ci abbiamo ragionato più volte con Giunio Luzzatto. Personalmente mi è capitato solo una volta che dopo un anno di Ssis una persona abbia detto: “Non mi sento di fare l’insegnante”. C’è però da dire che con il bisogno di lavoro che c’è ora, è difficile che qualcuno lo rifiuti.
Anna. Noi alle studentesse chiedevamo perché avessero scelto questo percorso. Devo dire che in un gruppo di trenta studentesse, tranne due, che hanno detto di averlo fatto per far piacere ai loro genitori (e che si sono poi allontanate dal percorso), tutte le altre hanno motivato la scelta prevalentemente con tre ragioni: perché avevano avuto un familiare insegnante che le aveva appassionate; perché avevano un ricordo positivo di un insegnante, persino dell’infanzia, quindi con un ricordo molto lontano, e il terzo gruppo, per aver avuto esperienze di tipo educativo con bambini, come doposcuola, Grest, cose di questo tipo.
Qual è il rovescio della medaglia? Che si ritenga sufficiente il “mi piace lavorare con i bambini”. Si tratta si valorizzare e approfittare di questo piacere, ma anche di trasformarlo, farlo diventare competenza. Il percorso di formazione serve proprio a questo. Comunque direi che la motivazione in entrata, anche se molto emotiva, c’è; tra l’altro parliamo di ragazze che non venivano necessariamente dall’indirizzo psicopedagogico, ma anche da indirizzi scientifici, linguistici…
Clotilde. Va poi aggiunto che la situazione è molto diversificata a seconda che si parli di insegnanti delle secondarie o delle primarie, perché lavorare con preadolescenti e adolescenti…
Anna. È diverso, molto diverso. Poi c’è il fatto che purtroppo la scuola a volte si presenta con il suo volto più scostante... la burocrazia, la moltiplicazione delle riunioni... Mi spiego: le riunioni erano state pensate anche per favorire l’interdisciplinarità delle materie, però se si eccede e si mal interpreta il loro obbiettivo, si finisce con lo frustrare anche le spinte più positive.
L’altro elemento di frustrazione, e comunque problematico, è il rapporto con i genitori.
Nel percorso di formazione viene affrontato anche il rapporto con i genitori?
Clotilde. Ai miei tempi se ne parlava, credo anche oggi; comunque l’impressione è che da quando dirigevo la Ssis le cose siano molto peggiorate.
Anna. Da tutte e due le parti. Cioè, da una parte abbiamo gli insegnanti che difendono rigidamente il fortino e dall’altra i genitori che invece lo assaltano… è come se mancasse il terreno sul quale ti confronti. Manca il merito. Io sono uscita dalla scuola dopo 41 anni di lavoro, quindi avevo una certa reputazione che mi permetteva di lavorare in autonomia e libertà. Capisco però le difficoltà che può incontrare un giovane alle prime armi… e sai qual è la cosa negativa? Che l’insegnante lasciato solo, senza supporti, finisce per fare quello che si aspetta il contesto. Quindi a non dare una valutazione negativa se questa può provocare una discussione... Alla fine è tutto un po’ falsato, capisci? Questo secondo me è un problema grave.
Clotilde. Purtroppo abbiamo assistito a un progressivo allentarsi del ruolo del collettivo, che certo non aiuta. Nell’insegnamento secondario dovrebbe esserci una modalità di incontro e confronto tra i diversi insegnanti della stessa classe.
Anna. Questo è molto importante. Nella primaria, dove è previsto, il rischio è che nei fatti questa prerogativa venga svuotata nel suo ruolo fondamentale. Quello che infatti succede è che, avendo lo stesso insegnante un minimo di due-tre classi, e non essendo più pretesa come vincolante la progettazione comune, finisce per prevalere l’aspetto burocratico, che infatti è molto aumentato.
Per concludere?
Clotilde. Che dire? Forse il vero problema, come ricorda sempre Vittoria Gallina, è che abbiamo istituito la scuola di massa senza accorgercene e con le riforme siamo arrivati tardi o non siamo arrivati affatto...
È vero, abbiamo intrapreso tante battaglie, ma tante le abbiamo anche perse! Guarda, io negli anni Settanta, credevo che la riforma della scuola secondaria fosse lì a due passi. Nel 1964, al mio primo convegno sulla scuola, dopo che era nata la mia seconda figlia, nel mezzo di quell’intenso dibattito, pensavo tra me e me: quando la bambina sarà al ginnasio avremo cambiato la scuola! E invece...
Anna. Qui ha una grande responsabilità anche la sinistra istituzionale…
Clotilde. Assolutamente!
Anna. D’altra parte il Pci era contrario alla riforma della scuola media…
Clotilde. Sì, quella riforma, l’unica vera riforma della scuola nel nostro paese, è passata con il voto contrario del Pci, e sai perché? Perché Concetto Marchesi, grande latinista, era contrario al fatto che fosse stato espunto l’insegnamento del latino. In un certo senso aveva pure ragione, però bisogna capire cosa c’era prima. Io ho insegnato anche all’avviamento professionale, e anche quella è stata una bella esperienza. Avevo una classe composta solo da maschi. Però avevo già molte idee innovative, ero già andata all’Mce, il Movimento di Cooperazione Educativa, per farmi aiutare. Quell’anno, Maria, una mia compagna di università, aveva una classe solo di femmine. Ecco allora l’idea geniale: una corrispondenza tra maschi e femmine! A questi miei ragazzi che facevano gli apprendisti meccanici, anziché Leopardi, proposi le “Poesie degli Indios Piaroa”, pubblicate da Scheiwiller, affinché avessero degli argomenti da scambiare nelle lettere con le ragazze. Alla fine dell’anno scolastico, con l’aiuto di Cecrope Barilli, promotore del Cemea romano, che ci aiutò proponendo diverse attività ludiche riuscimmo a fare incontrare le due classi.
(a cura di Barbara Bertoncin)
Anna Lona, già maestra elementare, è docente e formatrice ed è stata tutor coordinatore presso Scienze della formazione primaria di Padova nella sede di Verona.
Hai recentemente promosso, attraverso il Centro Studi Clotilde & Maurizio Pontecorvo, una serie di webinar rivolti agli insegnanti in servizio su diversi argomenti: l’ascolto degli allievi, la valutazione a scuola, la didattica a distanza, l’insegnamento della storia contemporanea, l’apprendimento della lingua scritta, la formazione iniziale degli insegnanti e il reclutamento e la formazione dei docenti secondari. Vorremmo parlarne ora con te anche a partire dalla tua lunga esperienza.
Clotilde. Forse è una sciocchezza, ma, fin da quando ho cominciato a leggere e a scrivere, volevo insegnarlo agli altri: la mia nonna paterna aveva una domestica analfabeta e io pretendevo di alfabetizzarla. Mio padre era morto due mesi prima che io nascessi, quindi a crescermi è stata mia madre, una donna che amava molto studiare; infatti, nonostante a casa sua fossero otto figli, lei è riuscita, dopo il diploma magistrale, a studiare il greco per sostenere l’esame di maturità del liceo classico per potersi iscrivere all’università e studiare Lettere a Sant’Ivo alla Sapienza, dove poi ha conosciuto mio padre che studiava Legge. Si è sposata a 22 anni senza completare gli studi universitari, tuttavia mi ha trasmesso proprio questo gusto per lo studio. Non solo, è stata lei, che non conosceva alcuna lingua straniera, a farmi imparare il francese e l’inglese già da bambina e io, a mia volta, li volevo insegnare alle mie amichette. Questo per dire che tutta la mia vita è stata accompagnata da questa idea per cui quello che so lo voglio insegnare o comunque dire a qualcuno. Prima di compiere ottant’anni ho conseguito il diploma del corso di studi ebraici a Roma, con una tesi su Walter Benjamin; mi sono divertita molto a fare lo studente e subito ho avuto voglia di condividerlo con gli altri. In questo momento cerco di farlo spesso con la mia collaboratrice, una brillante traduttrice e insegnante di lingue, di origine brasiliana. Ancora adesso, ogni tanto le propongo le mie conoscenze, soprattutto di midrash. Il midrash è l’interpretazione narrativa dei testi biblici, che è molto aperta, appassionante: tutti possono fare midrash, purché si possa provare quello che si sostiene con dei dati linguistici o contestuali. Ricordo che quando insegnavo Analisi del discorso alla Facoltà di Psicologia, avevo degli studenti che dicevano: “Ah, il suo corso è bellissimo, però i suoi collaboratori dicono cose diverse da lei”, e io rispondevo: “Ottimo, ma pure voi potete dire delle cose diverse, basta che proviate le vostre tesi sui dati discorsivi”.
Ma lei mi chiedeva della formazione degli insegnanti. Appena laureata ho fatto l’abilitazione, poi ho vinto il concorso tra la nascita della mia prima figlia e quella della seconda, tanto che, il giorno che dovevo fare lo scritto, il mio ginecologo mi aveva messo in guardia perché temeva che io potessi partorire, ma avevo fatto i conti meglio di lui ed ero tranquilla. Il concorso l’ho vinto, ma già allora ero totalmente contraria alle modalità dei concorsi. A noi si chiedevano i papi, gli imperatori e io li avevo imparati a memoria. Dopodiché il mio primo articolo è stato un commento critico sulle modalità dei concorsi degli insegnanti, che mi pare non siano cambiati molto.
Uno dei nodi della questione ruota attorno al fatto che conoscere le materie non vuol dire saperle insegnare.
Clotilde. Purtroppo siamo ancora a quel punto. L’idea è che se tu sai la tua materia si dà per scontato che con quei pochi crediti delle cosiddette materie psicopedagogiche la saprai anche insegnare (cfr. scheda di Nicoletta Lanciano a p. 20). Niente di più sbagliato...
Anna. Questo è il vero punto debole del sistema. Anche l’ultimo decreto che regolamenta i criteri e la formazione iniziale degli insegnanti mantiene una differenza radicale tra la formazione per la fascia infanzia primaria e quella per la fascia secondaria, primo e secondo grado. Allora, per la primaria, le competenze disciplinari e quelle psicopedagogiche e relazionali vengono acquisite assieme, cioè lo studente che diventerà insegnante, nell’arco di cinque anni obbligatori, impara le discipline, ma poi, contemporaneamente, partecipa a dei laboratori per sperimentare la parte didattica e anche la parte inclusiva e, soprattutto, fa il tirocinio. Parliamo di seicento ore di tirocinio.
Viceversa, per i docenti della secondaria, una volta presa la laurea, sono sufficienti 24 crediti di materie genericamente psico-pedagogiche. Tra l’altro questa offerta può essere gestita dalla stessa facoltà, cioè, la Facoltà di Fisica, per esempio, può offrire questi corsi al suo interno, oppure lo studente può conseguirli dopo la laurea. E questo già è un elemento di caos. Ma il dato più preoccupante è che in questa fase non è previsto alcun momento di pratica, di tirocinio, come avveniva invece con la Ssis, la Scuola di Specializzazione all’Insegnamento Secondario.
Clotilde. Io ho diretto la Ssis delle Sette Università del Lazio per sei anni. È stato un impegno enorme. Nella Ssis insegnavo Psicologia dell’educazione, ma ovviamente là davo un’impostazione molto diversa rispetto al normale corso che tenevo nella Facoltà di Psicologia. Le Scienze dell’educazione devono essere adeguate al compito specifico di formazione dei docenti. Tu insegni Sociologia? Bene, a che cosa serve la Sociologia a un insegnante? A capire come sono gli studenti, le loro dimensioni sociali. Insomma, non si trattava di studiare per l’esame, di saper raccontare la disciplina; tutto doveva essere funzionale al compito specifico. Per questo trovo la richiesta dei crediti psico-pedagogici un’assoluta follia, non ricordo nemmeno chi li abbia inventati.
Comunque, secondo me, per la formazione dei docenti, ci sono tre macro-questioni. La prima è che i nuovi insegnanti che entrano nella scuola devono essere una leva di cambiamento, devono sollecitare, smuovere, invece oggi, quando entrano nel mondo della scuola, restano una sorta di “accidente”, proprio nel senso di Aristotele: sono presenze assolutamente casuali e ininfluenti.
Questo è un peccato perché il neofita potrebbe portare innovazione, anche proprio attraverso la pratica. Non a caso, nelle Ssis avevamo previsto un rapporto forte con la scuola esistente attraverso la funzione degli insegnanti supervisori che erano insegnanti con un curricolo specifico e sostenevano un concorso pubblico per assumere questo ruolo, mantenendo il loro insegnamento a tempo parziale, per cui non si distaccavano dalla scuola: metà del loro orario lo facevano nella scuola di specializzazione dove coordinavano i tirocini degli studenti, mentre l’altra metà la svolgevano nella scuola di provenienza.
Partiamo dalla scuola primaria: qual è oggi il percorso formativo previsto?
Anna. Da noi il sistema funziona così: gli studenti dal secondo anno iniziano il percorso di tirocinio guidati da due figure, anzi tre: un tutor organizzatore, che ha il compito di coordinare soprattutto i rapporti con le scuole e tutta la parte organizzativa e burocratica; poi dei tutor coordinatori, dei supervisori (che superano un concorso dove valgono dei titoli ma, soprattutto, devono avere delle esperienze significative maturate nella scuola, di conduzione di gruppi, di formazione). La terza figura è il tutor accogliente, cioè, l’insegnante che nella scuola accoglie lo studente o la studentessa per quattro anni. Delle seicento ore che ricordavo, infatti, più di metà sono di tirocinio diretto, cioè attività che lo studente fa in prima persona, a scuola. Il tutor accogliente è una figura molto importante che accompagna lo studente nel suo “provarsi” nell’attività didattica, ma non è prevista nella formazione alla scuola secondaria.
Poi è verissima la questione che poneva Clotilde, sull’incidentalità di queste figure che entrano nella scuola. In effetti non c’è alcuna riflessione su come capitalizzare questa presenza, come farla giocare nel rapporto insegnante-in-formazione e scuola. Io ho fatto la tutor accogliente, ed è vero che tutto rischia di rimanere limitato al rapporto con lo studente o la studentessa...
Clotilde. Io sono convinta che la presenza di un nuovo insegnante nella scuola dovrebbe essere, oltre che un collegamento importante tra la scuola e l’università, un seme di innovazione per tutti. Inoltre, l’insegnante accogliente ha un ruolo molto importante non solo perché accoglie lo studente nella sua classe, lo guida, lo aiuta, ma perché allo stesso tempo può ricevere da lui/lei degli stimoli innovativi, perché, per esempio, avrà studiato la fisica più recente o la filosofia in un modo diverso. Attualmente, invece, niente di tutto questo avviene. Perché? Perché non è previsto. Tanto più che, come dimostra nella sua scheda Andrea Gavosto della Fondazione Agnelli, l’attuale immissione in ruolo dei docenti delle graduatorie ministeriali avviene per i laureati che hanno insegnato almeno due-tre anni in una scuola statale; senza quindi aver compiuto alcun percorso formativo del tipo delineato sopra.
Anna. È un tema spinoso. Certo così si mortificano le potenzialità degli insegnanti usciti dai percorsi di formazione perché alla fine quello che succede è che finché fanno il tirocinio le scuole se li contendono per fare le supplenze, ma poi...
Questo è un problema perché l’innovazione tu la garantisci se l’ingresso di queste forze nuove avviene con un minimo di massa critica; se questi giovani insegnanti entrano uno qua e una là, il sistema li fagocita; se invece l’ingresso avviene con una certa forza anche quantitativa, casomai non nello stesso posto ma in contemporanea, alcuni fili che si stabiliscono durante la formazione poi rimangono e diventano scambio, valore aggiunto.
Tutto questo ha a che fare anche con la scarsa attenzione per la dimensione della ricerca educativa e didattica. Potete raccontare?
Clotilde. Allora che cos’è la ricerca didattica? È una ricerca che ha la scuola come soggetto e oggetto. La prima cosa da chiarire è che la ricerca didattica si fa nella scuola, ma poi ci vogliono anche gli esperti, quindi l’università, che però a sua volta ha bisogno di rimanere in contatto con la scuola, sennò il risultato sarebbe molto insoddisfacente. Se il triangolo scuola-ricerca-università funziona, tutto si tiene.
Personalmente ho scoperto la ricerca didattica tanti anni fa con due fisici, Matilde Vicentini e Paolo Guidoni, mancati entrambi, purtroppo, proprio quest’anno. Eravamo co-genitori nella scuola elementare dei nostri figli (Montessori, di via S. Maria Goretti, Roma) e abbiamo fondato il Gruppo Università-Scuola, il Gus, che comprendeva anche Lydia Tornatore, la grande pedagogista di Firenze, e poi insegnanti elementari e delle medie. È stato così che abbiamo iniziato a fare ricerca con gli insegnanti. Mi ricordo ancora, ad esempio, una bellissima ricerca fatta da una docente romana con i suoi allievi durante la giornata studiando la pazienza materna. Ma le esperienze interessanti furono tante. Una di queste insegnanti, moglie di un professore di Matematica, faceva molto discutere nella sua classe. Ho studiato accuratamente le loro discussioni e l’aspetto molto interessante era che i bambini si parlavano a vicenda. Uno diceva una cosa e l’altro interloquiva, tanto che noi parlavamo di un “effetto qui quo qua”.
Comunque, la nostra prima ricerca la svolgemmo nel doposcuola facendo osservare a gruppetti di bambini il rimbalzo di alcune palle. Come psicologa avevo organizzato l’osservazione mentre i fisici avevano preparato le esperienze. Tuttavia tutto avveniva nell’ambiente della scuola.
Anna. Rimango sul tema ricerca-scuola-università. Io credo che l’insegnante in formazione, nel corso del tirocinio, potrebbe diventare l’occhio dell’università, uno sguardo sulle dinamiche di un’istituzione soggetta a continui cambiamenti; uno sguardo che permetterebbe all’accademia di riflettere non in astratto, ma su quello che succede e di restituire poi queste sue riflessioni alla scuola, agli insegnanti. Questa sarebbe un bellissima sfida, però presupporrebbe una disponibilità dell’università e al contempo un interesse, un’apertura, da parte dei dirigenti scolastici.
È chiaro che se tu invece lasci l’insegnante da sola, ti può capitare quello che ti manda a far fotocopie come invece quello che ti fa fare un’esperienza significativa. Anche rispetto ai temi, sarebbe importante oggi individuare alcuni filoni attorno ai quali la ricerca potrebbe concentrarsi, per esempio la valutazione o la famosa storia delle competenze, che è un problema gigantesco…
Un altro tema -qui penso alla primaria- sarebbe la didattica della storia: è un problema o no? A parte che ogni cinque anni cambiano i contenuti, prima fino alla contemporaneità, dopo fino all’antica Roma, dopo fino all’antica Roma però prevedendo delle incursioni sulla contemporaneità… Certo così è difficile portare innovazione. Alla fine l’insegnante che arriva a scuola apre il sussidiario e segue quello…
Negli ultimi decenni ci si è molto interrogati su come e cosa insegnare a dei ragazzini che le informazioni le possono trovare dappertutto…
Clotilde. Il fatto è che la scuola, a mio avviso, deve rinunciare a essere una fonte primaria di informazione, lavorando invece molto sulla costruzione di strumenti critici. L’uso di internet, per esempio, richiederebbe un grande sviluppo di capacità critiche. Emilia Ferreiro (grande psicolinguista argentina) mi ha raccontato che lavorando con alcuni studenti, era emersa la domanda sul perché nelle mummie egiziane da un certo punto in poi non ci fosse più il cuore. Ecco, porre un problema, andare a indagare cos’è cambiato in quella cultura, quando e perché... Si possono fare ricerche appassionanti perché i dati ce li hai, ma devi avere le domande. Sapete cosa diceva il matto dello Shtetl, il villaggio ebraico polacco? Lui andava in giro e diceva: “Io ho la risposta! Ma chi ha la domanda?”. Bisogna sapersi porre le domande.
Quindi la scuola dovrebbe insegnare a fare le domande…
Clotilde. Esatto. Insegnare a fare delle domande, che poi significa porsi dei problemi.
Anna. Perché le risposte si possono trovare anche fuori dalla scuola. Anche in rete ci sono materiali straordinari...
Clotilde. Il punto è sapere utilizzare la rete, saper fare una ricerca, individuare le fonti adeguate.
Anna. Temo tuttavia che oggi la scuola non sia in grado di svolgere questo compito, anche per motivi oggettivi: l’accelerazione è stata così intensa che il processo di assestamento resta difficoltoso... Basterebbe pensare al destino delle nuove dotazioni tecnologiche: tu hai messo nelle scuola decine di Lim, che però vengono utilizzate come una televisione. La potenzialità interattiva a cui faceva riferimento Clotilde, per cui se tu devi cercare perché la mummia egizia non ha più il cuore, quali siti vai a vedere? Di quali ti fidi e di quali no? Quali sono i criteri? Ecco, questo lo fai se padroneggi lo strumento interattivo. Allora qua c’è il grosso problema della formazione alle tecnologie degli insegnanti. Quello che mi verrebbe da dire è che gli ultracinquantenni ormai li tieni come sono e investi sui nuovi.
Clotilde. Eh, sì, però l’età media degli insegnanti è quella.
Anna. Paolo Fabbri parla di noi insegnanti come di “migranti digitali”, di quelli tosti però. Allora qui o tu inserisci nella scuola delle figure che si occupano di facilitare questo passaggio aggiornando noi “migranti” solo sul pezzo della didattica, oppure fai un investimento serio sui nuovi, che però non possono essere quelle 12-16 ore di laboratorio di tecnologie per la didattica. Tanto più che l’informatica, la tecnologia la impari se la pratichi.
Clotilde. È proprio così: serve una pratica, aggiungo, personale. Perché il nostro criterio è che la formazione dei docenti deve essere a livello adulto, cioè, tu non puoi insegnare per insegnare, devi innanzitutto imparare tu in un modo aperto, diverso. Quando creammo il Gus, per prima cosa organizzammo dei corsi per noi; eravamo divisi in aree, io mi occupavo dell’area storico-sociale, Matilde Vicentini della matematica, Guidoni della fisica; poi c’era Gianfranco Staccioli per il gioco, e Lydia Tornatore che mi pare facesse la logica. Ricordo che era la settimana della tragedia di Salvador Allende, quindi erano giornate emotivamente molto intense. Però stavamo tutti insieme e ciascuno doveva fare il corso per gli altri, cioè preparare qualcosa che sollecitasse il gruppo. Fu un successo favoloso, perché eravamo tutti sullo stesso piano con un doppio ruolo in quel contesto di scoperta e formazione. Pensa che i primi scritti del Gus uscirono come note di ricerca dell’Istituto di Fisica Guglielmo Marconi di Roma, perché erano stati loro a darci degli spazi di riunione, ad aprirci le porte!
Il recente concorso sulle cosiddette materie Stem, le discipline scientifico-tecnologiche, pare sia andato molto male...
Clotilde. Purtroppo va detto che la formazione universitaria non è oggi sempre adeguata. Noi all’epoca abbiamo studiato molto bene nel corso di laurea in Filosofia, avevamo dei bravissimi professori; c’erano pure ancora dei professori fascisti. Vittoria Gallina riuscì con altri colleghi a mandarne via uno che faceva degli errori madornali per ignoranza.
Comunque è indubbio che anche l’università è messa male e questo si ripercuote sulla preparazione degli studenti che dovranno poi diventare insegnanti. Voglio dire, hai una bella voglia a fare didattica della matematica non euclidea, o a escogitare delle formule innovative per la didattica della fisica quantistica, ma può essere che quelli a cui ti rivolgi non conoscono bene la geometria euclidea o la fisica di Galilei. Se non sai la materia, la didattica non può compensare le mancanze.
Allora, è evidente che c’è un problema di reclutamento e anche di formazione, la quale può essere contemporanea, o successiva (come risulta dalla scheda di Gallina). Da questo punto di vista in Europa la situazione è variegata. Assieme ad altri studiosi, siamo giunti alla conclusione che sarebbe preferibile fare prima il concorso, ammettendo sulla base delle conoscenze disciplinari. Qui però si apre subito un altro problema che è quello delle prove di accesso ai concorsi. Il Ministro Bianchi ha proposto di fare prove “oggettive”, ma quanti docenti delle future commissioni le saprebbero fare? Personalmente le ho apprese dal libro fondamentale di Gattullo sulla docimologia e poi lavorando con il Prof. Visalberghi nelle prove per la prima ricerca internazionale Iea (Institute for Educational Achievement).
La scuola finlandese da anni viene portata ad esempio di efficacia ed equità, ma solo il decimo degli insegnanti che si candida riesce a entrare, dopodiché quello dell’insegnante è un mestiere molto prestigioso e anche ben pagato...
Clotilde. È tutto collegato. Io sarei favorevole a una maggiore selezione in entrata. Per gli insegnanti sarebbe assolutamente necessaria. Per i professori universitari ancora di più!
Negli anni Ottanta, il Ministero della Pubblica Istruzione mi diede la possibilità di organizzare un incontro internazionale sulla formazione degli insegnanti; venne anche un professore di Kiel (Germania), che era il direttore della formazione in matematica degli insegnanti tedeschi, che ci chiese: “Quanti mesi di stipendio ci vogliono a un maestro italiano per comprarsi un’utilitaria?”. Ai tedeschi ne bastava uno; a un italiano ce ne volevano cinque.
Anna. Questo ragionamento vale anche per la figura del tutor, centrale nella formazione. Ecco, per dire, in questo impianto il tutor dovrebbe essere a costo zero, com’è possibile? In alcuni istituti si negozia un forfait di cinque ore all’anno. Ma già questo sminuisce e svilisce l’intero impianto. Cioè collaborare con una giovane futura insegnante aiutandola a fare progetti non è una cosa banale, non si tratta di fare delle fotocopie.
Clotilde. La mia prima esperienza di insegnante, appena vinto il concorso, è stata a Sessa Aurunca. La mia seconda figlia, che aveva meno di un anno, imparò subito a dire quando doveva fare pipì: cosa fondamentale! Uscivo la mattina da casa alle sei e mezza, avevo il treno alle sette, arrivavo a Sessa Aurunca Scalo alle otto e mezza, poi dovevo prendere il pullman insieme a qualche gallina viva perché i contadini le portavano al mercato! Successivamente ho insegnato al liceo magistrale a Roma e ai miei studenti facevo fare il tirocinio nelle scuole elementari, perché era compito del professore di filosofia e pedagogia, come ero io. Ci divertivamo moltissimo. Se tu chiedi a un insegnante di accogliere dei ragazzi, devi dargli tempo e risorse.
Anna. Allora il diploma ti dava l’accesso al concorso, adesso invece è prevista la laurea. Ebbene, io ho fatto una piccola indagine e ogni università fa un po’ quello che vuole, con differenze anche significative, per esempio nell’organizzazione dei laboratori. Nelle università le seicento ore di tirocinio poi sono diversamente distribuite nei quattro anni fra diretto e indiretto. Mi chiedo se non sarebbe il caso di ristabilire alcuni criteri a livello nazionale. Per molti anni sono prevalse spinte forti sul decentrare, sull’autonomia delle istituzioni; non sono sicura sia la strada giusta...
Clotilde. Un coordinamento tra le università è assolutamente necessario.
Anna. Adesso in Scienze della formazione primaria ogni facoltà decide i test d’ingresso. Comunque, quello che è certo è che per gli insegnanti secondari è fondamentale l’integrazione tra corsi disciplinari, inclusa la Didattica disciplinare, e corsi di Scienze dell’educazione. E poi l’integrazione tra laboratori e tirocini. Cioè che il tirocinio abbia un riscontro in un laboratorio didattico, perché ci sia il tempo di discuterlo, di analizzarlo, di riflettere sulla pratica. Un’altra cosa essenziale sarebbe che gli insegnanti capissero se vogliono davvero fare questo lavoro...
La generazione del ’68 era entrata con una grande spinta ideale. Oggi, qual è la situazione? E quand’è che un futuro insegnante capisce se quella è davvero la sua vocazione?
Clotilde. È molto difficile. Ci abbiamo ragionato più volte con Giunio Luzzatto. Personalmente mi è capitato solo una volta che dopo un anno di Ssis una persona abbia detto: “Non mi sento di fare l’insegnante”. C’è però da dire che con il bisogno di lavoro che c’è ora, è difficile che qualcuno lo rifiuti.
Anna. Noi alle studentesse chiedevamo perché avessero scelto questo percorso. Devo dire che in un gruppo di trenta studentesse, tranne due, che hanno detto di averlo fatto per far piacere ai loro genitori (e che si sono poi allontanate dal percorso), tutte le altre hanno motivato la scelta prevalentemente con tre ragioni: perché avevano avuto un familiare insegnante che le aveva appassionate; perché avevano un ricordo positivo di un insegnante, persino dell’infanzia, quindi con un ricordo molto lontano, e il terzo gruppo, per aver avuto esperienze di tipo educativo con bambini, come doposcuola, Grest, cose di questo tipo.
Qual è il rovescio della medaglia? Che si ritenga sufficiente il “mi piace lavorare con i bambini”. Si tratta si valorizzare e approfittare di questo piacere, ma anche di trasformarlo, farlo diventare competenza. Il percorso di formazione serve proprio a questo. Comunque direi che la motivazione in entrata, anche se molto emotiva, c’è; tra l’altro parliamo di ragazze che non venivano necessariamente dall’indirizzo psicopedagogico, ma anche da indirizzi scientifici, linguistici…
Clotilde. Va poi aggiunto che la situazione è molto diversificata a seconda che si parli di insegnanti delle secondarie o delle primarie, perché lavorare con preadolescenti e adolescenti…
Anna. È diverso, molto diverso. Poi c’è il fatto che purtroppo la scuola a volte si presenta con il suo volto più scostante... la burocrazia, la moltiplicazione delle riunioni... Mi spiego: le riunioni erano state pensate anche per favorire l’interdisciplinarità delle materie, però se si eccede e si mal interpreta il loro obbiettivo, si finisce con lo frustrare anche le spinte più positive.
L’altro elemento di frustrazione, e comunque problematico, è il rapporto con i genitori.
Nel percorso di formazione viene affrontato anche il rapporto con i genitori?
Clotilde. Ai miei tempi se ne parlava, credo anche oggi; comunque l’impressione è che da quando dirigevo la Ssis le cose siano molto peggiorate.
Anna. Da tutte e due le parti. Cioè, da una parte abbiamo gli insegnanti che difendono rigidamente il fortino e dall’altra i genitori che invece lo assaltano… è come se mancasse il terreno sul quale ti confronti. Manca il merito. Io sono uscita dalla scuola dopo 41 anni di lavoro, quindi avevo una certa reputazione che mi permetteva di lavorare in autonomia e libertà. Capisco però le difficoltà che può incontrare un giovane alle prime armi… e sai qual è la cosa negativa? Che l’insegnante lasciato solo, senza supporti, finisce per fare quello che si aspetta il contesto. Quindi a non dare una valutazione negativa se questa può provocare una discussione... Alla fine è tutto un po’ falsato, capisci? Questo secondo me è un problema grave.
Clotilde. Purtroppo abbiamo assistito a un progressivo allentarsi del ruolo del collettivo, che certo non aiuta. Nell’insegnamento secondario dovrebbe esserci una modalità di incontro e confronto tra i diversi insegnanti della stessa classe.
Anna. Questo è molto importante. Nella primaria, dove è previsto, il rischio è che nei fatti questa prerogativa venga svuotata nel suo ruolo fondamentale. Quello che infatti succede è che, avendo lo stesso insegnante un minimo di due-tre classi, e non essendo più pretesa come vincolante la progettazione comune, finisce per prevalere l’aspetto burocratico, che infatti è molto aumentato.
Per concludere?
Clotilde. Che dire? Forse il vero problema, come ricorda sempre Vittoria Gallina, è che abbiamo istituito la scuola di massa senza accorgercene e con le riforme siamo arrivati tardi o non siamo arrivati affatto...
È vero, abbiamo intrapreso tante battaglie, ma tante le abbiamo anche perse! Guarda, io negli anni Settanta, credevo che la riforma della scuola secondaria fosse lì a due passi. Nel 1964, al mio primo convegno sulla scuola, dopo che era nata la mia seconda figlia, nel mezzo di quell’intenso dibattito, pensavo tra me e me: quando la bambina sarà al ginnasio avremo cambiato la scuola! E invece...
Anna. Qui ha una grande responsabilità anche la sinistra istituzionale…
Clotilde. Assolutamente!
Anna. D’altra parte il Pci era contrario alla riforma della scuola media…
Clotilde. Sì, quella riforma, l’unica vera riforma della scuola nel nostro paese, è passata con il voto contrario del Pci, e sai perché? Perché Concetto Marchesi, grande latinista, era contrario al fatto che fosse stato espunto l’insegnamento del latino. In un certo senso aveva pure ragione, però bisogna capire cosa c’era prima. Io ho insegnato anche all’avviamento professionale, e anche quella è stata una bella esperienza. Avevo una classe composta solo da maschi. Però avevo già molte idee innovative, ero già andata all’Mce, il Movimento di Cooperazione Educativa, per farmi aiutare. Quell’anno, Maria, una mia compagna di università, aveva una classe solo di femmine. Ecco allora l’idea geniale: una corrispondenza tra maschi e femmine! A questi miei ragazzi che facevano gli apprendisti meccanici, anziché Leopardi, proposi le “Poesie degli Indios Piaroa”, pubblicate da Scheiwiller, affinché avessero degli argomenti da scambiare nelle lettere con le ragazze. Alla fine dell’anno scolastico, con l’aiuto di Cecrope Barilli, promotore del Cemea romano, che ci aiutò proponendo diverse attività ludiche riuscimmo a fare incontrare le due classi.
(a cura di Barbara Bertoncin)
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