Simon Smith, diplomatico britannico, in servizio a Mosca come consigliere dal 1998 al 2002 e come ambasciatore a Kiev dal 2012 al 2015, dirige il Forum su Ucraina, Russia ed Eurasia del Royal Institute of International Affairs (Chatham House), centro studi specializzato in analisi geopolitiche ed economiche.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, sono seguiti dieci anni di caos sotto il governo di Boris Eltsin. Tu eri lì nel passaggio tra Eltsin e Putin. Cosa ricordi di quel periodo?
Sono stato a Mosca per quattro anni, gli ultimi due di Eltsin e i primi due di Putin. Uno dei miei principali ricordi dell’epoca di Eltsin è legato alla crisi economica dell’agosto 1998. A lungo, probabilmente poco saggiamente, Eltsin aveva tentato di sostenere artificiosamente il valore del rublo, opponendo per troppo tempo resistenza a una svalutazione, anche perché sapeva che tanti russi avevano una visione molto semplicistica dell’economia; se avessero improvvisamente visto svalutato il rublo, avrebbero pensato di star rischiando tutti i propri averi. Certo sarebbe stato meglio svalutare prima, perché poi si è dovuto procedere a un deprezzamento ben maggiore, mettendo diverse banche in grossi guai. È allora che la popolazione ha perso fiducia nelle capacità del governo di gestire adeguatamente l’economia.
Una seconda cosa che ricordo riguarda lo scenario politico. La guerra in Cecenia era ripresa negli ultimi anni della presidenza di Eltsin; Putin, all’epoca Primo Ministro, era molto incline a rinfocolare il conflitto per conquistarsi maggiore popolarità in vista della futura presidenza. Nel settembre del 1999 si verificarono diversi attentati esplosivi, apparentemente provocati da terroristi ceceni, con centinaia di vittime.
Indubbiamente molti attentati erano legati alla questione cecena, la cui resistenza fu molto attiva finché Mosca non cominciò a combatterla foraggiando i peggiori signori della guerra ceceni in cambio della loro fedeltà al Cremlino, ma è ampiamente condivisa l’opinione secondo cui anche i servizi di sicurezza russi ebbero un ruolo negli attentati del 1999, quantomeno nell’incoraggiarli e renderli possibili. Anche in altri casi è difficile credere che i terroristi non fossero stati in qualche modo facilitati. Certo faceva comodo far emergere un nuovo problema a cui avrebbero potuto offrire una soluzione. In tanti, per esempio, sono convinti che nel famoso assedio al teatro Dubrovka, dove terroristi ceceni avevano preso in ostaggio molte centinaia di civili, i servizi di sicurezza avessero  operato per far apparire l’episodio molto più grave di quanto non fosse. Secondo diversi osservatori, per esempio, molti dei sequestratori non erano neppure armati e l’intera vicenda si sarebbe potuta concludere con un semplice negoziato. Invece, come sappiamo, le forze speciali russe rilasciarono un gas nell’auditorium, uccidendo molte persone. In tanti, e non parlo di folli complottisti, pensano che quell’episodio sia stato drammatizzato per dimostrare alla popolazione quanto fosse grave il problema ceceno e che il governo era disposto a tutto per risolverlo.
Quali furono le tue prime impressioni dell’amministrazione Putin?
Per valutare quel periodo bisogna tenere conto del fatto che il paese era in pessime condizioni economiche. Il prezzo del barile era ancora relativamente basso, all’epoca non superava i 20 dollari. Era arrivato a un minimo di 9 dollari nell’ultimo anno di Eltsin, un livello tale da vanificare ogni discorso sul raggiungimento del pareggio di bilancio. Con riserve monetarie pari a quattro miliardi di dollari, il paese era a una settimana dalla bancarotta e anche le riserve liquide della banca centrale russa erano in condizioni pietose.
Non appena l’amministrazione si rese conto della gravità della situazione, prevalse un po’ di buon senso; Putin individuò una squadra di economisti che avevano il compito di proporre le azioni più urgenti per sostenere le riforme che avrebbero migliorato l’economia. In questo gruppo -che si chiamava “Centro per lo sviluppo strategico”- c’erano persone ancora influenti nell’economia russa. Parlo dell’attuale presidente della Banca centrale, Elvira Nabiulina, che di fatto gestisce ancora l’economia del paese, e di German Greff, ora a capo di una delle principali banche russe, Sberbank. A entrambi sarebbero stati poi conferiti ruoli di governo, come avvenuto anche per altri esponenti di quell’Istituto. Il mio lavoro all’epoca consisteva proprio nell’incontrare questo team per scoprire se c’erano ambiti d’azione in cui potessimo consigliarli. L’idea era che se la Russia fosse riuscita a trasformarsi in un’economia moderna, vitale e riformata, sarebbe stata una buona cosa sia per loro sia per noi.
Loro volevano questo aiuto?
In quella fase era abbastanza chiaro che lo apprezzavano. C’erano alcuni temi su cui c’era meno interesse, ma concordavano che bisognasse ristrutturare il tessuto industriale perché producesse più valore per rendere competitiva l’economia della Russia, che così sarebbe diventato un paese più stabile e affidabile. Insomma, erano tanti gli argomenti su cui la vedevamo allo stesso modo. D’altra parte, chi potrebbe mai opporsi a una serie di riforme il cui scopo essenziale è dare alle persone una maggiore longevità e quindi una vita lavorativa più lunga, renderle più produttive e aumentare il benessere? Ero davvero convinto di star lavorando in maniera cooperativa e armoniosa con loro.
Dunque, cos’è che è andato storto? Credo che un grosso fattore sia stato ciò che è avvenuto al prezzo del petrolio. Come dicevo prima, se nel 1999 il barile valeva ancora meno di 10 dollari, e nel 2002 sfiorava i 20, nel 2006 aveva preso a decollare. In un certo senso, fu un gran colpo di fortuna per la Russia: nel giro di pochi anni le riserve monetarie erano schizzate fino a 400 miliardi di dollari, per poi toccare i 680 miliardi o giù di lì. Era certamente una buona notizia, il rischio di una grande crisi economica si allontanava. D’altro canto, però, mentre i profitti del petrolio e del gas andavano accumulandosi, veniva meno il bisogno urgente di riformare il sistema economico. Un’altra cosa che ho cominciato a vedere, prima di lasciare la Russia nel 2002, è che quei grandi profitti erano diventati oggetto dei desideri di tutti quegli operatori che volevano arricchirsi con il denaro pubblico e sviluppare attività illecite.
C’è questa narrazione secondo cui per un periodo Putin fosse aperto e disponibile all’Occidente e alla Nato. Lo era davvero in questa fase?
Sì, assolutamente. C’è un’intervista della Bbc del marzo 2000 in cui il giornalista David Hoffman gli aveva chiesto cosa ne pensasse di un eventuale ingresso della Russia nella Nato.
Lui aveva risposto: “Perché no?”, per poi aggiungere che avrebbe dovuto esaminare la cosa molto seriamente, assicurarsi che i termini di ingresso nella Nato rispettassero lo status speciale della Russia e che la loro idea di sicurezza venisse tenuta da conto, ma comunque la posizione era “perché no?”. C’erano parti della sua amministrazione che cominciavano a entrare in relazione con la Nato, era stato istituito un gruppo chiamato “Consiglio Nato-Russia” in cui i russi sembravano intenzionati a impegnarsi seriamente. Insomma, l’impressione generale era che ci fosse una vera apertura, un reale interesse.
Credi fosse un interesse sincero?
Sì, ma devo anche dire che la mia impressione di Putin è che sia sempre stato un opportunista. Se ogni tanto ti può sembrare di esserti assicurato un impegno autentico da parte sua, nel giro di pochi mesi lui potrebbe individuare un’opportunità migliore e mollarti su due piedi. Appena sono cominciati ad arrivare i proventi del petrolio, ha pensato che forse quelle riforme non servivano più e che comunque disponeva di una rete di persone, di “compari”, di soci, su cui fare affidamento.
Alcuni osservatori ritengono che la sua salita al potere fosse parte di un progetto molto specifico maturato in ambienti ex-Kgb. Naturalmente sappiamo che Putin è un ex ufficiale del Kgb, ma non è il solo nei vertici del paese; c’è un’intera comunità di ex-Kgb che, come Putin stesso, avrebbero poi assunto ruoli nell’Fsb, l’ente che ne ha ereditato la funzione. Putin ha fatto un percorso leggermente diverso: dal Kgb è passato alla politica locale, per poi arrivare nell’amministrazione presidenziale a Mosca e da lì diventare responsabile del Consiglio di sicurezza della Federazione russa. Altri, invece, sono passati direttamente dal Kgb all’Fsb, entrando a far parte della “squadra” del presidente. Secondo alcuni analisti questo era il piano sin dall’inizio.
Uno degli esempi migliori di questa teoria si trova in un libro di Catherine Belton intitolato Putin’s people (Gli uomini di Putin. Come il Kgb si è ripreso la Russia e sta conquistando l'Occidente, La nave di Teseo, 2020). Secondo Belton, il Kgb aveva iniziato ancor prima del crollo dell’Unione sovietica a sottrarre illegalmente fondi pubblici per costruire un tesoretto politico che garantisse una continuità nella nuova Federazione russa. Personalmente trovo degli elementi di verità in questa teoria, anche se non credo che ci fosse un piano così lineare. Sicuramente concordo con il fatto che il potere reale in Russia sia basato su questa rete di persone, molte ex-Kgb, con al centro Putin. Quando sono arrivati i soldi del petrolio, questo network ha cominciato a stanziare dei fondi al di fuori del bilancio federale per istituire una sorta di controllo manipolativo di parti cruciali dell’economia russa.
Tornando alla Nato, quale fu la reazione dell’Occidente all’apertura di Putin?
Da quel che ricordo fu positiva. Il Consiglio Nato-Russia e i vari tipi di meccanismi cooperativi operavano in buona fede. La Nato all’epoca aveva fatto sforzi concreti per far capire alla Russia che, anche se non avrebbe certo cambiato le regole per farli entrare subito, i russi, cooperando,  avrebbero potuto conoscere meglio i suoi meccanismi e decidere fin dove spingere il rapporto. Nessuno alla Nato era impaziente di averli come alleati, ma appariva evidente il senso di una buona cooperazione con i russi che, perlomeno, consentisse di far capire loro che la Nato non costituiva una minaccia. Sicuramente fino a metà del primo mandato di Putin sembrava essere una relazione molto promettente.
La Nato era unita su questa posizione di apertura?
C’era uno spettro di opinioni, ma in generale c’era molta cautela. Nessuno certo auspicava che entrassero come membri l’indomani, però tutti capivano che, perlomeno, creare un “ufficio russo” e consentire loro di avere dei rappresentanti permanenti sarebbe stato giusto per tutti, così come farli partecipare a molte discussioni interne. Naturalmente c’erano anche gli scettici, vecchi combattenti della Guerra fredda che in qualche discussione dicevano: “Non siamo così convinti sia una buona idea consegnare i nostri segreti al nemico...”.
Anche da parte dell’Unione europea c’era questa apertura?
Sì, direi ancor più che da parte della Nato. In questo ho un’esperienza più diretta. Sia l’Ue come istituzione, sia la maggioranza dei suoi stati membri erano molto inclini a sviluppare un rapporto di cooperazione. Se si torna a quei primi anni di Putin, molti suoi economisti, pur senza arrivare ad auspicare un ingresso ufficiale, pensavano che se la Russia si fosse attenuta alle direttive europee ciò avrebbe prodotto un effetto trasformativo per il paese.
Non credo che Putin si sia mai dichiarato d’accordo con questo, ma l’amministrazione, presa nel suo insieme, era felice di incoraggiare quegli economisti che ravvisavano del buono nelle misure proposte da Bruxelles. L’idea era che, se la Russia fosse riuscita a riformare la propria economia allineando i suoi criteri di gestione ai requisiti di adesione, non sarebbe stato neanche più necessario entrare perché l’economia russa avrebbe cominciato a funzionare e questo sarebbe stato già un grande traguardo.
Una situazione molto vicina all’adesione…
Sì, era questo lo spirito, all’epoca. Ripeto, anche questo è un entusiasmo che è andato scemando man mano che i profitti provenienti dal petrolio e gas aumentavano.
A quel punto, era sempre più facile per quegli esponenti dell’amministrazione a Mosca più ostili all’Occidente predicare una sorta di “via russa” allo sviluppo; senza mai specificare quale fosse questa “via russa”, se non, forse, calcolare quanta parte dei proventi del petrolio intascarsi. Quando lavoravo a Mosca, spesso mi sono trovato a parlare di Ue con personaggi politici ed economisti e credo che l’approccio generale fosse che la Russia non avrebbe mai aderito all’Ue. Il problema fondamentale dei russi era la sovranità che avrebbero dovuto delegare. Macron, per intenderci, si dice un felice sostenitore dell’Ue, anche se questo significa delegare un po’ di sovranità francese a Bruxelles, perché sa che la sua sovranità è ben maggiore di quella che potrà mai cedere all’Unione, e che questa può fare molto per i francesi. A un critico che gli rinfacciasse di aver ceduto sovranità, lui potrebbe rispondere che quella cessione ha reso più forte tutto il paese. I russi certo avrebbero avuto un problema con questo concetto. Una volta giunti a una negoziazione vera e propria, probabilmente sarebbero inorriditi all’idea che alcune decisioni non sarebbero più state prese a Mosca. Se però avessero acconsentito, la porta era aperta.
L’ultima volta che la Gran Bretagna ebbe la presidenza del Consiglio europeo, tra luglio e dicembre 2005, mi trovai a presiedere molti incontri ufficiali con la Russia. È in quei sei mesi che mi resi conto che l’interesse per l’Ue stesse svanendo. Altra cosa di cui era difficile parlare era il loro vicinato. Anche nel 2005 si capiva già che andava montando una certa frizione, non appena si rendevano conto che l’Unione era incline a proporre l’ingresso a paesi come la Georgia e l’Ucraina. Intendiamoci, non è che l’Europa dicesse “domani ci prendiamo la Georgia, dopodomani l’Ucraina”. Però certo non escludeva quell’allargamento; se Tbilisi o Kiev  avessero scelto di candidarsi, l’Ue non avrebbe certo risposto loro che era impossibile “perché la Russia non vuole”. Più se ne parlava con i russi, più questi davano a intendere che il discorso non gli piaceva affatto. Fu in quel periodo che mi resi conto di come da un disinteresse generico si fosse passati a un’avversione aperta. Dal pensare, cioè, che non ne valesse la pena, al ritenere che la Russia avesse uno status troppo speciale per confluire nell’Unione, per finire con il convincersi che l’Ue costituiva una vera e propria minaccia alla Russia e quindi andava sabotata.
Anche se non ho mai chiesto a un russo cosa ne pensasse del premio Nobel per la pace attribuito alla Ue nel 2012, penso che quello abbia ulteriormente irritato Mosca, inducendoli a pensare che l’Ue era un’entità nient’affatto pacifica, che aveva preso a collezionare sempre più paesi in giro per l’Europa, producendo in quegli stati un atteggiamento di ostilità nei loro confronti. Nei russi c’è un senso di paranoia secondo cui il mondo esterno avrebbe l’obiettivo di smembrare il loro paese. Anche se la ritengo una paura del tutto infondata, va trattata come un fatto reale, perché molti russi ne sono persuasi. D’altra parte, Putin ha fomentato questo timore per anni, sicuramente anche perché sa che creare questi nemici è un modo per consolidare la sua posizione.
Nel 2005, Putin dichiarò che il crollo dell’Unione sovietica è stato il più grande disastro geopolitico della storia. Secondo te cosa intendeva dire?
Penso che quel commento di Putin sia stato frainteso. Quello che intendeva dire è che noi occidentali non ci rendiamo conto di quanto quell’evento sia stato traumatico, quanto abbia arrecato danno alla vita delle persone.
Gli occidentali continuano a rivolgersi alla Russia come se si trattasse di un paese qualsiasi, senza tenere conto dell’evento distruttivo che ha dovuto attraversare, un qualcosa che ha portato danno a talmente tante istituzioni russe. Questo l’Occidente non l’ha capito, e Putin ha ritenuto necessario ricordargli quanto invece fosse stato un evento centrale. Secondo me è questo quello che voleva dire, ma in seguito quella dichiarazione è stata oggetto di troppe interpretazioni differenti.
Abbiamo pensato che intendesse che fosse necessario ricostituire l’Urss…
Esatto, e penso sia questo il grave errore dell’Occidente. Ma esistono affermazioni ufficiali di Putin secondo cui, se da un lato bisogna essere senza cuore se non si prova talvolta nostalgia per l’Unione sovietica, è anche vero che bisogna essere senza cervello se si ritiene che dovrebbe esistere ancora. In un certo senso è vero che vuole rifare l’impero, ma non è questo il linguaggio che sceglie quando vuole trasmettere quel concetto.
Il modo in cui è stato gestito il terrorismo ceceno, poi quello islamista, il suo discorso sull’Urss e la guerra in Georgia sono tutte cose che hanno contribuito ad aumentare la sfiducia dell’Occidente…
C’è stato un evento importante nel 2004, quando Yanukovych, che era il candidato di Putin alle elezioni presidenziali ucraine, venne sconfitto da Yushchenko dopo che la sua vittoria iniziale era stata contestata. Secondo molti analisti, Putin la prese come una grave umiliazione personale; si convinse che era necessario aprire un altro fronte per dimostrare ai russi che era infallibile e che avrebbe “rifatto grande la Russia”. Quello è stato un momento di svolta, che ha contato nel modo in cui successivamente la Georgia è stata presa di mira .
Dunque credi che l’aggressione alla Georgia fosse in realtà un messaggio per l’Ucraina?
Sì, credo ci fosse questo legame, ma è stato un messaggio rivolto a tutto l’Occidente. Si possono rintracciare dichiarazioni ufficiali dell’epoca a commento delle aspirazioni della Georgia di entrare nella Nato in cui da Mosca si faceva notare quanto fosse ridicola quell’opzione. Sottintendendo: “Ucraina, hai sentito anche tu?”.
In quel momento i nodi vennero al pettine; dato quanto accaduto in Ucraina, Putin aveva ritenuto che non fosse il caso di limitarsi a velate minacce all’indirizzo della Georgia, ma che fosse il caso di portare lo scontro a livello fisico. Anche quello è stato un momento chiave, tale da far crollare drasticamente l’entusiasmo dell’Occidente verso forme di cooperazione con Putin.
A proposito di Ucraina, tu eri lì tra il 2012 e il 2015, epoca in cui nel paese si è passati da un presidente filo-russo a uno filo-Europa.
In Ucraina nel 2012 c’era un vero e proprio braccio di ferro tra Europa e Russia. Per qualcuno il paese aveva un atteggiamento ambiguo, altri parlavano di “politica estera multi-vettoriale”. C’erano poi visioni più ciniche, come quella dell’ex presidente Kuchma, che parlava di “mungere due vacche”, prendere qualcosa dalla vacca europea, qualcos’altro da quella russa… Secondo me anche Kuchma ha sempre saputo che questa era più che altro una boutade, ma al fondo c’era l’idea che si potesse continuare a trarre vantaggio da entrambe le parti.
Yanukovych, che aveva vinto le elezioni del 2010, era presidente quando arrivai io nel paese; neppure lui volle rinunciare a questa idea delle “due vacche”; anche i suoi economisti riconoscevano che potesse trarne beneficio l’intero paese. Proprio come a suo tempo avevano sostenuto gli economisti russi, alcuni economisti ucraini affermavano che se il loro paese avesse lavorato per raggiungere gli standard dell’Ue, l’economia sarebbe divenuta più solida. D’altra parte, l’alternativa era il modello russo, che non dipendeva certo dallo stato di diritto, ma dalla corruzione, dalle tangenti e dagli accordi segreti. Molta dell’economia ucraina, in effetti, funzionava allo stesso modo, quindi tanti uomini d’affari non avevano interesse nell’agenda europea. Mi ritrovavo a tenere conferenze per cercare di spiegare i benefici dell’ingresso nell’Ue, a parlare di legge, trasparenza, sana competizione, parità di condizioni, protezione dei diritti dei consumatori, dei diritti umani, condizioni lavorative migliori… Nessuno dei presenti aveva mai da ridire, ma so che, di fatto, molti leader ucraini pensavano semplicemente che fosse una strada che non giovasse agli affari e che convenisse di più corrompere un giudice che lavorare in maniera trasparente e attenersi alla legge.
I problemi veri in Ucraina sono cominciati nel settembre 2013, quando Yanukovych e la sua amministrazione scelsero all’unanimità di concludere l’accordo di associazione con l’Ue. Putin vide che Yanukovych stava per intraprendere una strada che avrebbe prodotto uno sbilanciamento, e che rischiava di perdere ogni legame con Kiev. Così lo invitò a Mosca e, anche se nessuno sa veramente cosa si sono detti, penso che quella conversazione abbia spaventato molto Yanukovych non solo riguardo al futuro del suo paese, ma proprio a livello personale. Sinceramente non mi sorprenderebbe scoprire che Putin gli abbia detto: “Viktor, se fai questa cosa ti ammazziamo”. Qualunque cosa si siano detti, Yanukovych si spaventò molto e decise di rimangiarsi l’accordo con l’Ue, perché il tempo dell’ambiguità era finito. Molti ucraini capirono che era stata fatta una scelta e il paese si divise. In tanti erano d’accordo, mentre altri guardando ai loro vicini polacchi dicevano: “Guardate dov’era la Polonia nel 1990 e guardateli ora, dopo che hanno riformato l’economia secondo gli standard europei. Beh, vogliamo farlo anche noi”.
Yanukovych dichiarò che l’alternativa all’Europa era un prestito di 15 miliardi di dollari proveniente da Mosca -peraltro, c’erano già inchieste su quanta percentuale di quel “prestito” si fosse intascato il presidente e i suoi parenti. Cominciarono le manifestazioni filo-Europa.
Dopo le proteste le persone sarebbero tornate a casa e poteva anche finire così; invece, l’amministrazione ordinò alla polizia di picchiare i manifestanti, ed è allora che la gente si arrabbiò davvero. Cominciò l’occupazione di piazza Maidan, a centinaia di migliaia si assieparono nella piazza principale della capitale per giorni, per settimane… a quel punto Yanukovych era del tutto paralizzato. Nell’amministrazione, peraltro, non c’era nessuno che potesse consigliarlo, indicargli una via d’uscita. All’epoca mi ritrovavo a parlare con personalità politiche anche vicine a Yanukovych e dicevo loro che per uscirne era necessario che il presidente dichiarasse che non si sarebbe ripresentato alle successive elezioni, altrimenti la situazione sarebbe ulteriormente degenerata. Nessuno però osava neppure consigliarlo in tal senso. Finalmente, a fine febbraio, Yanukovych accettò di anticipare le elezioni. A quel punto però era troppo tardi e il presidente, spaventato, fu costretto a fuggire.
Credi che la sua fuga dal paese abbia innescato l’invasione della Crimea?
A Mosca c’era il timore di un’altra grande umiliazione. Per certi versi la situazione era uguale al 2004, anche se ora i russi avevano capito che se non avessero agito subito avrebbero perso definitivamente ogni capacità di influenza su Kiev. Ritennero di dover agire su due fronti: da un lato, capire quali fossero gli asset strategici fondamentali russi in Ucraina. In cima alla lista c’era la base navale di Sebastopoli. Stabilito questo, bisognava cominciare a fomentare il popolo facendogli credere che la rivolta in Ucraina era stata un’operazione degli americani per assicurarsi il controllo di quella base, così si sarebbe potuta spostare l’attenzione su una versione mitizzata della realtà che allarmasse le persone a tal punto da convincerle che era necessario agire subito. Fu questo a provocare l’invasione della Crimea. Visto il successo di quell’operazione, i russi decisero che bisognava dimostrare agli ucraini che, se desideravano allontanarsi dalla Russia, questa poteva rendergli la vita impossibile. Il messaggio a Kiev, dunque, fu che non gli sarebbe stata consentita una navigazione tranquilla e non avrebbero avuto modo di riformare il paese perché i russi si sarebbero messi di traverso.
Questo ci porta a un’altra fase, tra il 2014 e il 2022, che essenzialmente è la storia del fallimento russo nel distruggere l’Ucraina. A mio giudizio, i russi hanno tentato di fare due cose. Pensiamo alla Crimea: è stato come amputare una gamba. La seconda, e prendiamo il Donbass, è iniettare un veleno. Un territorio lo amputi, un altro lo avveleni. Non si sono presi direttamente Donetsk e Luhansk, ma ci si sono inseriti in maniera discreta, come un veleno. Con questo progetto, l’idea era che l’Ucraina avrebbe cominciato a zoppicare.
Poi c’è il controllo della Bielorussia...
Esattamente. Certo la Bielorussia è una questione distinta, ma sicuramente anche da lì si possono trarre degli insegnamenti. Sono sicuro che Putin avesse messo nel conto anche quello; aveva già ricevuto molte sanzioni per l’invasione della Crimea, altre sanzioni perché i separatisti del Donbass avevano abbattuto un aereo di linea malaysiano nel 2014, ma ancora non percepiva di essere davvero isolato.
L’Occidente avrebbe potuto punirlo di più, mettere fine a ogni cooperazione, sottoporlo a isolamento internazionale, chiudere ogni canale… Putin notò che questo non era accaduto, ma riteneva di non aver bisogno di invadere l’Ucraina; gli bastava danneggiarla a sufficienza da far crollare tutto il progetto europeo, costringendo Kiev a tornare in ginocchio a Mosca.
All’epoca l’Occidente fece abbastanza?
Ora, poiché l’invasione è avvenuta, è molto facile dire che le sanzioni non sono bastate. Certo non sono bastate a farlo desistere dal “finire il lavoro iniziato”. La Russia per questi otto anni aveva pensato di poterla fare franca, che quindi non era il caso di essere troppo aggressivi; con un po’ di fortuna l’annessione della Crimea e l’avvelenamento del Donbass sarebbero bastati a ottenere l’obiettivo. Nel 2022 era apparso evidente che le cose non erano andate come previsto, ed è per questo che -in aggiunta al processo di alterazione mentale di Putin, che l’ha reso talmente tanto paranoico da distaccarlo dalla realtà- si è deciso di procedere con un’invasione in piena regola. In questo senso, no, le sanzioni non sono state sufficienti. La mia opinione, mentre lavoravo intorno a questi temi nel 2014-2015, era che la maggior parte dei governi occidentali -se non tutti- pensassero ancora che Putin si sarebbe astenuto da atteggiamenti più estremi, che anche per lui fosse più prezioso continuare a cooperare, che non avrebbe corso un rischio tanto grosso; magari avrebbe testato i limiti, ma non avrebbe mai messo tutto a repentaglio. Era questa la mentalità che condizionava il pensiero che, pur contemplando le sanzioni, non riteneva fosse utile spingere ulteriormente l’isolamento della Russia.
Credi che questo abbia incoraggiato la Russia all’aggressione?
È stato un fattore, sì. Sono sicuro che Putin avesse dei consiglieri che gli hanno detto che per l’Occidente la Russia era troppo importante, che non si sarebbe potuto permettere di tagliarlo del tutto fuori. Credo ci sia anche un “fattore Trump”, nel senso che per il ruolo che poteva avere Trump nella politica americana la Russia possa aver pensato che, al dunque, per l’Occidente la Russia sarebbe parsa più importante dell’Ucraina. “A chi vuoi che gliene importi dell’Ucraina?”. Penso sia stato incoraggiato anche da queste valutazioni. Comunque c’è una combinazione di elementi all’opera; Putin è stato incoraggiato a trarre le sue conclusioni anche perché riteneva che l’Occidente in quella fase fosse relativamente debole. Non dimentichiamoci anche che Putin può essere arrivato al punto di convincersi di cose che non avevano fondamento. Credo sia stato questo un elemento fondamentale tra le ragioni che lo hanno indotto a invadere nel febbraio 2022. Era convinto davvero che l’Ucraina sarebbe capitolata nel giro di quattro giorni, ed era altrettanto sicuro che una grossa fetta della popolazione lo amasse e avrebbe accolto a braccia aperte i russi. Ora ci appare bizzarro, ma io sono sicuro che lui ci credesse davvero. Certo non posso indicare alcuna prova di questo, ma tutte le azioni intraprese da Mosca suggeriscono che sia andata così. Credo che questo sia alla base del fatto che moltissime persone, fino all’ultimo -incluso me- non pensavano davvero che Putin avrebbe lanciato un’invasione; ci sembrava una cosa totalmente stupida e irrazionale. Forse anche perché sapevamo meglio di Putin quanto fosse scalcinato il suo esercito, e poi l’invasione non reggeva un’analisi costi-benefici. Sulla base dei fatti a noi noti era lecito pensare che nessun leader sano di mente si sarebbe lanciato in una simile avventura. Abbiamo fatto questo calcolo assumendo il punto di vista di una persona razionale. Non tutti ne sono convinti, ma io credo davvero che Putin abbia perso la cognizione della realtà.
Un altro punto sottovalutato da tutti era anche quanto negli ultimi otto anni gli ucraini avessero migliorato le proprie capacità militari. Questo però lo dovevamo sapere, anche perché Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada erano sul campo ad addestrare le forze armate ucraine sin dal 2014, per cui certo nel 2022 conoscevamo meglio le condizioni del loro esercito.
Una delle ragioni per cui Kiev non è capitolata sotto la prima ondata è perché non sono rimasti impietriti, non hanno pensato: “Ora che ci arrivano addosso 200.000 russi che facciamo?”. No, sapevano che la gran parte di quelle forze erano in pessime condizioni e che quindi era possibile difendersi.
L’intelligence che l’Occidente ha fornito agli ucraini dimostrava che i russi erano in realtà più deboli di quanto apparisse, e che quindi avevano una possibilità di difendersi efficacemente…
Non dipendevano solo da quella fonte d’intelligence. Quando mi trovavo in Ucraina ho sempre avuto l’impressione, e vale in entrambi i sensi, che certo non era possibile per l’intelligence ucraina tenere a bada una sorta di infiltrazione russa. Se ci pensiamo, quei servizi trent’anni fa erano parte della stessa agenzia.
Se sei a capo dei servizi segreti ucraini, ti ritroverai sicuramente a pensare, guardando alle persone sotto di te: “Chi tra loro in realtà lavora ancora per i russi?”. D’altro canto, però, può esserci anche qualcuno anche da parte russa che sospetta la stessa cosa. Insomma, ci sono molte possibilità di scrutinio per capire cosa fa l’altro.
Credi che l’Occidente avrebbe potuto fare di più sul piano diplomatico?
Se intendi nell’ultima fase prima dell’invasione penso di no. Ci sono un sacco di cose che forse avremmo potuto fare meglio nel 2002 o nel 2004, quello sì. Ma in realtà già all’epoca erano stati compiuti molti sforzi per far capire a Putin che non doveva neppure pensare a una cosa simile, perché le conseguenze sarebbero state molto serie. Lui non era certo dell’umore giusto per stare ad ascoltare. In realtà non mi viene in mente niente che avremmo potuto fare per evitare l’invasione. Quando si pone questa domanda si può anche implicare che avremmo dovuto persuadere l’Ucraina a dichiararsi neutrale o a promettere che non sarebbe mai entrata nella Nato. Chi si pone questo interrogativo a volte pensa anche questo. Qui posso affermare con certezza che non avremmo potuto fare niente. Non appena si comincia a parlare di ciò che l’Ucraina possa o non possa fare, di come l’Ucraina dovrebbe esercitare la propria sovranità, o si vuole far passare a loro il messaggio che per togliersi Putin di dosso devono dichiararsi neutrali, ci si dimentica che queste cose le si vanno a dire a un paese che ha un nemico molto potente a fianco, con molti più soldati e carri armati, che certo non si dichiarerà mai neutrale. Che razza di neutralità sarebbe quella?
Avremmo dovuto dire all’Ucraina di rassicurare i russi dichiarando che non avevano intenzione di entrare nella Nato, che sarebbero rimasti neutrali. E questo avrebbe risolto il problema? Non è così. Avrebbe semplicemente significato consegnare l’Ucraina ai russi, che se la sarebbero mangiata subito. A meno di non essere del tutto cinici e pensare che dovevamo consegnargliela.
Pensi che sia stato il timore di una guerra nucleare a far desistere l’Occidente da un atteggiamento più determinato con la Russia?
Non penso che quello ci abbia fermato. Credo che a limitare la reazione dei vari governi siano state due cose forse collegate: una è l’idea che se non avessimo reagito troppo duramente, i russi, con i loro tempi, un giorno avrebbero realizzato quanto tutta l’operazione fosse stata una sciocchezza, traendo da soli le loro conclusioni.
C’è ancora questa speranza che porta a pensare che, se non si spingono le cose troppo in là, potrebbe finire così. C’è chi pensa si possa fare di più per isolare la Russia, far capire loro che sono diventati una nuova Corea del Nord, un paese con cui nessuno vuole fare affari, da cui puoi solo difenderti, con cui non commerci neanche e che rendi totalmente irrilevante. Ma c’è anche chi dice che dobbiamo tenerceli buoni. Personalmente credo che la posizione giusta sia di continuare a stringere le maglie lentamente. Per cui, non “sconfiggere” la Russia in modo tale da lasciarli in uno stato di totale collasso. Anch’io coltivo la speranza che un giorno i russi si renderanno conto che tutta l’operazione gli sta costando troppo e forse esistono vie migliori; sarebbe anche possibile, seppure improbabile. Posso immaginare come potrebbe accadere, con la formazione di una fazione interna anti-Putin che si rende conto che la guerra va avanti da troppo tempo; questa potrebbe intervenire e fermare tutto, mettere fine alla guerra, arrivare a una trattativa per venirne fuori. Purtroppo non mi pare che nella lista delle possibilità questa sia molto in alto.  
Non ritieni che la minaccia nucleare abbia avuto un ruolo nella vicenda?
No. Non credo che sia stata la minaccia nucleare a indurre cautela nella reazione occidentale. Credo abbia influito di più il desiderio di non giocarsi subito tutte le carte. Certo non possiamo escludere l’elemento nucleare, dato anche ciò che ho detto prima sul fatto che a volte si fa l’errore di interpretare in modo razionale il comportamento di qualcuno che razionale non è. Sì, bisogna accettare che esiste il pericolo. Ma quando si parla di nucleare non siamo più nel terreno della disinformazione o dell’illusione di grandezza: dovrebbe essere davvero un pazzo furioso se arrivasse a ritenere una buona idea cominciare a gettare armi atomiche a nazioni che poi le tireranno immediatamente su di te. Personalmente credo che il rischio che il conflitto ucraino evolva in un conflitto nucleare sia basso, a meno che Putin non venga sostituito da un leader ancora più estremo -cosa che è comunque una possibilità. Ma vorrebbe dire che questo nuovo leader dovrebbe essere talmente fuori controllo e disconnesso dalla realtà da non comprendere le conseguenze di una simile azione. Penso che dovremmo avere fiducia nel fatto che, almeno a Occidente, in tanti hanno compreso la ratio che sta dietro la deterrenza nucleare, che poi è incarnata nella Nato, e il suo valore strategico; confidare nel fatto che questa strategia ha già funzionato in passato e continuerà a funzionare in futuro.
Che ruolo può svolgere la diplomazia con le democrazie autoritarie, che peraltro vanno aumentando di numero?
Trovo difficile capire come si possa agire dal di fuori di quei paesi. Molti di quelli che si sono trasformati in regimi autoritari e oppressivi sono spesso il risultato di una complicata combinazione di fattori interni e molti di quei leader sono giunti al potere dopo aver vinto elezioni libere e regolari. Pensiamo alla Turchia e a ciò che vi sta succedendo ora. Credo che abbia senso esercitare quel tipo di pressione che deriva dal tagliare i rapporti di cooperazione, anche se non sempre produce un risultato immediato. Non sono tra coloro che ritengono che le sanzioni non funzionino mai; raramente funzionano velocemente e talvolta colpiscono pure bersagli sbagliati, ma ritengo che siano le misure più efficaci di pressione diplomatica. Se per diplomazia intendiamo il modo in cui le azioni di un paese possono influenzare il pensiero e le azioni di un altro, allora le sanzioni sono uno strumento che permette a una comunità di paesi di far capire a uno stato che senza di lui loro possono trovare il modo per vivere bene ugualmente, la qual cosa  sarebbe per lui molto più difficile. Dopodiché sta a quel paese capire se può continuare a tenere in piedi un regime che gli costa troppo.
Intendiamoci, non è che io sia troppo ottimista; so che negli ultimi quindici anni circa le democrazie hanno perso terreno. Se si guarda agli indici che stimano la qualità delle democrazie nel mondo, le conclusioni che si possono trarre indicano che l’autoritarismo sta avanzando. Peraltro, non ritengo che le cose miglioreranno, anzi.
Non pensi che si potrebbe cominciare da quei paesi, penso all’Ungheria e alla Turchia, che stanno dentro alle nostre istituzioni, anche per indurre un maggiore isolamento della Russia?
Certo ritengo che l’Unione europea abbia un grave problema e che fatichi ad affrontarlo con chiarezza. Quella che mi preoccupa maggiormente è l’Ungheria. Sì, abbiamo avuto problemi anche con la Polonia, ma l’Ungheria ha anche la questione del rapporto con la Russia, cosa che la rende più problematica per l’Ue di tanti altri stati “anti-conformisti”. L’Ungheria sta diventando di fatto il cavallo di Troia di Putin in Europa. Se non ci comporteremo di conseguenza, non resterà nemmeno l’unico. Ci sono altri paesi, come la Repubblica Ceca, la Slovacchia e la Bulgaria, che sono vulnerabili a quel tipo di azioni di destabilizzazione che la Russia ha già inflitto all’Ucraina.
Credi che ci possiamo permettere un’istituzione che non contempli la possibilità di espellere degli Stati membri? Non è un paradosso?
È un altro aspetto di questa tendenza dei decisori di trattenersi dall’adottare misure drastiche. Il motore decisionale dell’Ue è fondato sull’assunto di non arrendersi mai, che, ad esempio, vorrebbe dire all’Ungheria: “Qui si parla del tuo futuro, noi ci teniamo davvero agli interessi del tuo popolo, per favore, dacci retta…”. Ma, sai, sempre più gente ha cominciato a dire che così non può funzionare, che bisogna cacciarli. In tutta la mia carriera diplomatica sono sempre stato convinto che fosse sempre meglio adottare una linea d’azione pragmatica, non andare a ribaltare il tavolo ma provare a tenere un terreno comune su cui persuadere l’altro, facendogli capire i benefici connessi al rimanere impegnati a determinate regole e discipline. In fondo, se hai preso la decisione di aderire a questa istituzione, sapevi che la tua scelta avrebbe comportato una qualche diminuzione di sovranità.
(a cura di Giovanni Maragno)