Puoi raccontare come è nato il centro?
Il centro è nato durante la guerra in Jugoslavia. In quel momento c’era un’organizzazione di intellettuali indipendenti di Belgrado, fondata all’inizio della guerra; infatti c’erano circa 300 persone a Belgrado che si erano impegnate in una dura opposizione contro questa violenza inferta in tutto il paese, per cui ci siamo messi a promuovere discussioni, a stampare libri, scrivere articoli, a parlare tra di noi e pubblicamente. E però è arrivato un momento in cui mi sono chiesta se non avessimo dovuto cercare di fare qualcosa per trasmettere alla gente il nostro messaggio in un modo alternativo, per farglielo, per così dire, sperimentare.
Io vengo dal teatro, sono una drammaturga, scrivevo adattamenti per il teatro, testi teatrali. Fin dall’inizio c’erano quindi questi gruppi di persone che avevano sempre convissuto nella cultura e nel contesto jugoslavo.
Poi però è arrivata la guerra e con essa le divisioni. Ecco, in quel periodo abbiamo pensato cosa potevamo fare. Così abbiamo costituito il centro pensando a un’istituzione che potesse parlare attraverso le parole, ma anche attraverso la pittura, il cinema, la scultura, i sentimenti, insomma con differenti modalità espressive. E’ stata una grande gioia quando siamo riusciti ad avere un palazzo antico in centro a Belgrado, che poi era in rovina. Molti di noi vi si sono subito sentiti a proprio agio: era indecente infatti stare seduti a Belgrado mentre tutto attorno a te, nel tuo ex-paese veniva distrutto e ridotto in macerie. Quando pensi alla Jugoslavia, a quante belle e preziose città sono state distrutte, e a ciò che la gente ha costruito al loro posto, capisci che si tratta di un processo irreversibile. Per esempio, pensiamo alle rovine di Mostar, di Sarajevo, di Bihac. Ovviamente parlo della Jugoslavia quando era ancora un unico paese e tutte queste città erano le “nostre” città.
Talvolta mi chiedo cosa potranno pensare gli archeologi che arriveranno qui un giorno, in futuro, cercando di scoprire cosa è veramente accaduto: lo troveranno assurdo!
Quindi c’era questo: un sentimento positivo di essere anche noi tra le rovine. Si tratta di un palazzo degli anni Trenta devastato. Così abbiamo iniziato i lavori di ristrutturazione di quello spazio, e di lì a poco anche le attività che erano mirate a coinvolgere non solo chi ci lavorava, ma anche il resto della gente. Perché quando getti un sasso nell’acqua poi si formano tanti cerchi concentrici progressivamente più ampi. Così negli anni si è formata una sorta di aggregazione, e il centro è diventato un punto di riferimento per la gente disperata per quella tragedia, ma anche arrabbiata per ciò che era stato fatto dalla follia nazionalista e dalle spinte centrifughe che hanno poi portato alla nascita dei vari stati dall’ex Jugoslavia. Partecipare alle nostre iniziative era un modo per articolare la tua protesta, e direi anche il tuo dolore.
Cosa significa “decontaminazione culturale”, qual è il vostro obiettivo?
E’ inevitabile parlare di “decontaminazione”, quando ti trovi a dover fronteggiare tutte queste menti già ideologizzate, questo nazionalismo così profondamente interiorizzato, e infine il plagio culturale, perché il nazionalismo in questi anni è andato distruggendo la nostra cultura, in particolare quella vivace e cosmopolita di Belgrado. Perché si comincia sempre con la grande letteratura, con tutto quello che hai di grande compromettendolo e svalutandolo. Belgrado infatti era una città molto aperta, con un’architettura particolare, con un atteggiamento che poteva essere definito “europeo” in qualche modo. Oggi invece c’è questa imposizione della cultura slava-ortodossa; e questo è potuto avvenire perché la gente è entrata nel modo di pensare nazionalistico di questo stato.
Allora il nome del centro enfatizza il fatto che c’è stata una contaminazione della società. Quando gli accademici cominciano a rilasciare certe interviste ai giornali e la tv e gli scienziati cominciano a mostrare e spiegare come la Serbia sia la nazione migliore, la più forte, la più grande…
Ora stiamo promuovendo il libro di un famoso giornalista, corrispondente per l’Herald Tribune da Spalato, che è riuscito a raccogliere 4000 slogan diffusi dai nostri nazionalisti durante la guerra.
Noi abbiamo preso questi slogan, li abbiamo riprodotti su dei poster. Bene, quando ...[continua]
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