Come mi sono salvata? Ero da mio nonno, in vacanza con uno zio che aveva solo due anni più di me. Era il ‘39, mio nonno era già molto anziano. A quel tempo una pattuglia di tedeschi occupava stabilmente, ma in modo amichevole, una parte dell’azienda. Un giorno uno di questi soldati prese da parte mio nonno e gli consigliò di andarsene al più presto o, almeno di mandar via noi giovani, finché ci si poteva ancora muovere. Insistette proprio di non aspettare l’inverno, di dar loro dei soldi e farli partire. Mio nonno gli credette. In una decina partimmo come clandestini in direzione della zona russa. Alla frontiera i russi videro che eravamo dei giovani che volevano fuggire dai tedeschi e ci fecero passare.
Avevo vent’anni, sapevo cosa erano i bolscevichi, ero stata a scuola, ma non facevo mai vedere che sapevo, era meglio non mostrare di essere colti, c’era il pericolo che ci prendessero per spie. La gente del luogo ci accoglieva in casa, con un gran cuore, non avevano niente ma se avevano qualcosa lo dividevano con gli altri. Quando per caso in un negozio trovarono dello zucchero, corsero a portarcelo perché pensavano che noi in Polonia non l’avessimo mai visto. Gli avevano messo in testa che negli altri paesi erano dei selvaggi. Tutti comunque pensavano che sarebbe finita presto, la Russia sarebbe avanzata e Hitler arretrato. E questo è successo, ma solo molto dopo. Ho sempre pensato che gli alleati avessero aperto un secondo fronte solo dopo aver visto che i russi andavano a Berlino e potevano avanzare ancora. Se lo avessero fatto prima si sarebbero salvate più persone dai campi di concentramento... Ma lì la storia era ormai mondiale, tutti erano coinvolti.
Non l’avrei più rivista, Lódz, la città dove vivevo. E in cui vivevano insieme (un terzo, un terzo e un terzo) tedeschi, polacchi, ed ebrei-polacchi, ebrei che erano lì da secoli, dai tempi della cacciata dalla Spagna. Non ho mai più rivisto mio padre, né mio nonno, ho ritrovato solo mia sorella tramite la Croce Rossa. Devo dire che non sono tornata in Polonia dopo la guerra. So di una ragazza tornata in Polonia a cercare la sorella e sparita, forse uccisa dai polacchi. I polacchi facevano agli altri le stesse cose che i tedeschi avevano fatto a loro: ai deportati avevano requisito i beni, alcuni si erano appropriati di appartamenti che non erano certo disposti a rendere a degli ebrei... Se qualcuno della famiglia, da solo, fosse andato là a chiedere, non si sapeva che fine avrebbe potuto fare. Chiesi pure alla polizia e anche loro mi consigliarono di rimanere dov’ero. Ero giovane e avevo paura; durante la guerra mi ero sposata e non volevo rischiare la vita di mio marito o degli amici che mi avrebbero accompagnato.
Quando poi sono arrivata a Parigi, nel ‘48, ho smesso del tutto di leggere in polacco, leggevo giorno e notte in francese, col vocabolario, ascoltavo la radio mentre lavoravo; con mio marito a volte parlavo polacco, spesso in yiddish, parlo ancora polacco con molta gente, ma con mia figlia solo francese, avevo un gran desiderio che lei parlasse senza accento. Da quando vivo in Francia sono stata in altri paesi, ma non in Polonia; vorrei rivedere la terra, i posti dove ho vissuto, forse ci sono ancora le persone con le quali andavo a scuola, ma non oso affrontare la cosa, rivivere certe emozioni, sono passati 50 anni, bisogna dimenticare, non si può tenere i piedi in due staffe. Mi sono affezionata alla Francia, quando sono diventata cittadina francese sono nata una seconda volta.
Mi ricordo bene quando i tedeschi invasero anche l’altra parte della Polonia: ero in un buon posto! In Siberia, in un gulag, ma ero stata fortunata a capitare in un buon campo, dove c’erano molte persone istruite, anche molte donne alle quali Stalin aveva ucciso mariti e amici. Io ero giovane, imparavo velocemente e bene il russo, potevo lavorare…
Fui veramente fortunata, altri erano stati mandati in Camciatca, terre vergini dove non c’era nulla, neanche capanne di legno, né strumenti per tagliare la legna, dovevano fare tutto solo con le mani. Furono portati via nei vagoni bestiame, come facevano i tedeschi; se nelle stazioni delle città chiedevano pane o acqua, dalle fessure dei vagoni, i soldati coi fucili non lasciavano avvicinare nessuno. Erano famiglie intere, senza soldi, costrette a mangiare l’erba perché non c’era nient’altro, e le persone morivano a migliaia.
Questo a ...[continua]
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