Archiviata la coppa del mondo è il momento di qualche riflessione sul significato extra-sportivo di queste competizioni che mettono in gioco i sentimenti di appartenenza alla collettività nazionale. Prima della rapida conclusione della partecipazione della squadra italiana qualche esponente leghista aveva dichiarato pubblicamente di non tifare per la nazionale, senza riscuotere però larghi consensi, probabilmente neppure presso i sostenitori del suo partito. Che l’identità nazionale sia una costruzione ideologica che risale alle grandi trasformazioni sociali nel XIX secolo è ormai largamente condiviso, ma costruire oggi l’identità di una nazione "padana” sembra francamente un’operazione improbabile. E che a questa costruzione possa contribuire anche il pallone fa anche un po’ sorridere, se non altro perché bisognerebbe inventare dei criteri per stabilire chi avrebbe il diritto di giocare in quella squadra. Non credo che i proponenti "padani” accetterebbero facilmente il criterio adottato dalla nazionale di Germania, dove giocavano cittadini tedeschi di origine polacca, brasiliana, turca, tunisina e ghanese e questo non ha impedito che i tedeschi esultassero, insieme alla signora Merkel, ad ogni gol della loro squadra. E’ vero che nel Regno Unito ci sono ben quattro squadre nazionali (Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord), ma il modello britannico non mi sembra applicabile all’Italia, dove alla fin fine ci vorrebbe una "nazionale” per ogni regione. Nonostante i (alcuni) leghisti, la nazionale italiana è abbastanza ben radicata nel cuore dei cittadini italiani.
Il tifo per la nazionale di calcio è infatti rimasto probabilmente l’ultimo rito nel quale gli italiani si riconoscono come appartenenti alla nazione. E’ una forma blanda (e tendenzialmente innocua) di nazionalismo, non necessariamente legata al bisogno di vincere e tanto meno di dominare sull’avversario, quanto al senso di fare parte di un "noi” che non soffoca l’individualità, ma consente di non sentirsi delle monadi solitarie. L’antico motto: right or wrong my country, che in passato ha giustificato le forme più bieche di sciovinismo, applicato al calcio, perde i connotati più odiosi.
Una volta uscita dalla competizione la nazionale italiana, il tifo italiano non sapeva per quale squadra "tenere”. Non ci si può accontentare di guardare le partite trasmesse dalla tv per il solo piacere del "bel gioco” e che "vinca il migliore”. La scelta poteva essere fatta partita per partita. Sarebbe interessante sapere se in occasione dei match tra una squadra europea e una di altro continente i tifosi italiani abbiano scelto in maggioranza la squadra europea oppure sud-americana, asiatica o africana. E’ probabile che nella finale la maggioranza abbia scelto la Spagna piuttosto che l’Olanda, per una sorta di identità "latina” riscoperta ad hoc, salvo forse qualche tifoso interista per onorare il proprio idolo Schnejder. E’ improbabile che l’Unione Europa possa avere in futuro una propria "nazionale” per la semplice ragione che non sarà mai una nazione, a meno che non debba richiedere ai propri cittadini la difesa armata dei sacri confini. E questo ci auguriamo che non accada mai. Che, in almeno alcune parti del mondo, si sia passati dai campi di battaglia dove si misurava la potenza delle armate agli stadi come teatri della competizione tra le nazioni è sicuramente un segnale di progresso.
Già il grande storico-sociologo Norbert Elias aveva indicato nello sport una forma di ritualizzazione, e quindi di addomesticamento, della violenza, ben consapevole che anche negli stadi, sul campo e sugli spalti, il controllo dell’aggressività è fragile e la violenza può irrompere da un momento all’altro. Le partite della nazionale diventano quindi un rito celebrativo dell’unità molto più efficace dei discorsi e delle parate militari in occasione della festa della Repubblica. Consentono, sia pure per un tempo assai breve, di mettere tra parentesi le divisioni e i conflitti. Lo aveva capito Nelson Mandela quando aveva lanciato la nazionale sud-africana di rugby con giocatori neri e bianchi per superare, almeno sul piano simbolico, la secolare frattura dell’apartheid. Nelle grandi competizioni sportive a livello mondiale (di cui i mondiali di calcio e le Olimpiadi sono gli eventi più vistosi) a competere sono pur sempre le nazioni e, alla fine, si guarda al numero e al metallo delle medaglie conquistate da ogni nazione.
Tra sport e politica c’è sempre un rapporto ambivalente di autonomia relativa e dipendenza reciproca. Ora, nell’era della globalizzazione, lo sport è diventato uno dei più colossali fenomeni di massa che nello stesso tempo unifica e divide il genere umano. Una nuova forma di "oppio dei popoli”? Forse. Se però serve ad incanalare i sentimenti nazionalisti in una direzione tutto sommato pacifica, non bisogna snobbarlo, come fanno alcuni intellettuali.
Alessandro Cavalli
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Alessandro Cavalli, già professore di Sociologia all’Università di Pavia, presiede presso lo stesso ateneo il Centro di Studi e Ricerche sui Sistemi di Istruzione Superiore (Cirsis). Il volume di cui si parla è Gli insegnanti italiani: come cambia il modo...
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