In queste pagine, ogni mese, cercherò di capire di che cosa storicamente si è trattato. Il Novecento sembra che si allontani da noi e dalle generazioni più giovani a una velocità crescente. Anche per me, che ho cominciato all’inizio degli anni Sessanta, tra fine liceo e università, a leggere e studiare poesia moderna, il Novecento poetico italiano è stato un problema. Lo capivo e mi interessava, in fondo, come un ramo secondario e minore di una vicenda che aveva altrove le sue radici: in Germania, in Inghilterra, in Francia, dai primi romantici alle origini del Simbolismo, con Novalis, Coleridge, Baudelaire. Gli italiani erano arrivati in ritardo. Prima con Leopardi, straordinario lirico e filosofo della modernità, eppure, all’inizio, violentemente antiromantico: le mitologie nordiche, con la sensibilità connessa, gli sembravano aberrazioni rispetto alla nostra secolare tradizione classica e classicista. Poi con Pascoli e D’Annunzio, così mostruosamente abili nel mescolare e nel non decidersi fra tradizionalismi e innovazioni, repertorio stilistico di scuola e instabilità, voracità, dismisura moderna. Il punto più alto e più basso, più estremistico ed elementare, la poesia italiana del Novecento lo raggiunge presto, immediatamente dopo la fragorosa e subito caricaturale rivoluzione futurista. Il Futurismo era stufo delle parole, avrebbe voluto che le parole fossero altro: rumori, esplosioni di luce, macchie di colore. Con un tale programma la verbalità poetica non poteva avvantaggiarsi molto.

Ungaretti prende immediatamente atto di questa distruttività euforica e la usa per i suoi scopi, vivendo di persona l’esperienza della distruttività, tragicamente non estetica, della guerra di trincea nel 1915-’18.
Sillabando "M’illumino/d’immenso” il soldato Giuseppe Ungaretti dice semplicemente l’indicibile: il mondo sparisce in un’estasi momentanea in cui l’io, per disperazione, gioiosamente perde la misura di sé e delle cose. In quel punto preciso tutta la tradizione poetica, la stessa idea di poesia, muore e rinasce. Tutto è illimitatamente possibile, se tutto è perduto. Cosa che non mancherà di avere nella poesia del secolo, o più precisamente sulla produzione e produttività di testi poetici, conseguenze molto spesso negative, almeno quanto quelle provocate dal metodo della "scrittura automatica” proposta da André Breton nel Manifesto del surrealismo del 1924. Dopo il verso libero, da Whitman e Rimbaud in poi, dopo l’abbattimento futurista dei vincoli sintattici e semantici, con la tendenza all’estrema semplificazione, con l’accostamento libero e automatico delle parole, con il collage e il montaggio delle frasi, si fa strada, fino a sembrare obbligatoria, la tecnica della mancanza di tecnica, la libertà da ogni regola e funzione comunicativa della lingua, fino a rendere a volte i testi poetici, non tanto oscuri o difficili da interpretare, ma letteralmente non-leggibili: scritti più per rappresentare se stessi e alludere alla "poeticità” che per essere letti.

Non è certo un caso se Ungaretti sia stato il poeta italiano internazionalmente più noto, tradotto e influente fino a metà Novecento. Fu lui il maggiore erede italiano della "poesia pura” nata in Francia con Mallarmé, e soprattutto è stato il primo, più autorevole e tipico maestro dell’Ermetismo fra le due guerre. Sembra che Ungaretti abbia preso estremisticamente alla lettera e abbia praticato con il massimo di coerenza, nel corso di un’esperienza realmente estrema come quella della Prima guerra mondiale, l’idea sia di Leopardi che di Edgar Allan Poe, secondo cui la poesia moderna è fondamentalmente lirica (espressione diretta dell’io) e non può che essere breve e concentrata.
Con "M’illumino/d’immenso” il programma è realizzato e portato al suo limite. Dunque: semplicità e oltranza. Di questo è stato maestro Ungaretti per i poeti italiani che sono venuti dopo di lui. In lui l’esperienza più semplice e diretta e l’esperienza-limite, almeno nel suo primo libro Allegria di naufragi  (1919), coincidono. "Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”, dice un’altra delle sue più famose poesie di guerra. Nelle generazioni successive succede che in alcuni si noti soprattutto la semplicità (per esempio in Attilio Bertolucci) mentre in altri l’oltranza (per esempio in Andrea Zanzotto).

È invece Giorgio Caproni che nelle sue ultime poesie (fulminei epigrammi morali in lotta con un beffardo e imprendibile Dio che gioca a identificarsi con il nulla) ritrova pienamente la vocazione originaria di Ungaretti alla poesia come annotazione da taccuino intensificata liricamente, in cui battuta iniziale e battuta finale, incipit e clausola, sono una cosa sola. Con una variazione stilistica, però, minima e decisiva: Caproni userà abbondantemente le rime e le concettualizzazioni aforistiche e paradossali, un tono che è estraneo a Ungaretti (un solo esempio: "Presta bene orecchio, / amico, a quel che ti dico. // Tu miri contro uno specchio. / Sparerai a te stesso, amico”).

Senza dubbio il migliore libro di Ungaretti è il primo. Proprio nell’Allegria il Novecento si rivela sia nel bisogno di modernità estetica assoluta, sia nell’esperienza di una guerra di dimensioni distruttive tecnicamente mai viste in precedenza nella storia. Quel primo libro è il diario di un soldato, è un documento umano disarmato e antiretorico pur essendo nello stesso tempo un laboratorio letterario di originalità sconcertante. È proprio nel cuore di quell’evento storico che si manifesta al massimo grado di intensità l’esigenza di una vita elementare e storicamente innocente nel contatto fisico immediato con ciò che accade:

Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

Cima Quattro il 23 dicembre 1915
 
Di ermetico in poesie come queste non c’è niente. Niente di allusivo, di oscuro, di letterario. L’Ermetismo non era ancora nato. La fama di Ungaretti per buona parte del Novecento, oltre che alla sua originalità tecnica genialmente semplice (e in realtà irripetibile), fu dovuta invece proprio all’influenza del suo secondo libro, Sentimento del tempo, pubblicato nel 1933. È qui che Ungaretti cambia stile. Ora è "poeta puro”, cioè programmaticamente astratto: solo un notevole epigono di Mallarmé e Valéry e quindi il maestro di quel ramo ormai esile del tardo Simbolismo europeo che è l’Ermetismo italiano, dominante fino al 1940, salvo rare eccezioni; anzitutto Pavese e Penna, per non parlare del maggiore antimodernista e antinovecentista che è Saba.

Basta leggere la prima strofa dell’Isola, una delle più famose poesie di Sentimento del tempo, per capire la radicalità della svolta:

A una proda ove sera era perenne
Di anziane selve assorte, scese,
E s’inoltrò
E lo richiamò rumore di penne
Ch’erasi sciolto dallo stridulo
Batticuore dell’acqua torrida,
E una larva (languiva
E rifioriva) vide,
Ritornato a salire vide
Ch’era una ninfa e dormiva
Ritta abbracciata a un olmo.
 
Dove siamo? Certamente fuori di questo mondo, in un luogo puramente e mitologicamente poetico o poeticizzato. Siamo nell’isola in cui l’indicazione di tempo, la sera, è "perenne”, cioè atemporale, e in una mezza luce che affievolisce e ottunde la percezione visiva facendola sconfinare in una blanda inclinazione visionaria. Poeta e lettore si muovono in selve "anziane” (allusivamente antiche, mitiche, perenni anche loro) e "assorte”, come se meditassero e insieme inducessero a una meditazione morbosamente disorientata eppure vigile. Non si vedono uccelli in volo ma se ne percepisce l’effetto ("rumore di penne”). Gli accostamenti sostantivo-aggettivo sono volutamente sconcertanti e stranianti (il "batticuore” è "stridulo” chissà perché, mentre l’acqua è perfino "torrida”, cioè rovente, bruciata dal sole, forse tropicale). La prima apparizione è quanto mai indefinita e sfocata: è una "larva”, un’apparenza illusoria, una forma in metamorfosi che poco dopo si trasforma in una ninfa addormentata. Tra selve e ninfe, siamo di nuovo in Arcadia.

Il materiale figurativo è neoclassico, vagamente misterioso, ornamentale, visto a occhi socchiusi, come in sogno. L’impressione è di una falsa, o finta, esperienza mentale. Il prototipo nobile, purtroppo, di tanta inconsistente, larvale, poesia futura.