Senza dubbio, comunque, tutti i poeti che hanno inventato la poesia novecentesca, anzitutto quelli, come si è detto, nati negli anni ottanta dell’Ottocento, hanno cominciato a scrivere quando la scena era dominata da Pascoli e D’Annunzio, nati rispettivamente nel 1855 e nel 1863.
All’inizio del nuovo secolo Pascoli aveva già quarantacinque anni e D’Annunzio trentasette. Sia l’uno che l’altro disponevano di un vasto pubblico, di un prestigio e di una fama che dopo di loro nessun altro riuscirà a conquistarsi nella stessa misura. Ancora negli anni cinquanta del Novecento era piuttosto raro che a scuola si parlasse di Ungaretti e Montale, poeti considerati per lo più dagli insegnanti di liceo troppo difficili e astrusi, e che per essere capiti avrebbero richiesto giustificazioni e premesse storiche, ideologiche e letterarie particolarmente complesse. Per imporsi, per avere un pubblico, per entrare d’autorità nelle scuole, la poesia moderna ha dovuto aspettare a lungo.
Dunque Pascoli e D’Annunzio hanno continuato a occupare il Novecento poetico anche quando ormai le più giovani generazioni di scrittori li consideravano "sorpassati” sia per il loro umanesimo virgiliano (Pascoli) o superomistico (D’Annunzio) che per il loro complesso e macchinoso apparato formale di provenienza classicistica. Ai professori piacevano entrambi perché dimostravano che una tradizione poetica secolare e millenaria era ancora in vita, non si era interrotta. Ai ceti medio-bassi e medio-alti piacevano come modelli ideologici e morali: Pascoli era preferito dalla piccola borghesia, dai socialisti e dalle donne, D’Annunzio dagli snob, dalle "femmine di lusso”, dai prefascisti e dai fascisti.
Poeta e scrittore molto più precoce e prolifico, D’Annunzio morì nel 1938 e tenne a lungo occupati a vivisezionarlo e a esorcizzarlo critici come Borgese, Praz, Debenedetti: ma poi sparì sommerso dalle rovine del "dannunzianesimo”, retorica, moda, stile d’epoca che finì per essere la sua più notevole (e molto ingombrante) creazione estetica.
Il destino di Pascoli è stato diverso. Morto a cinquantasette anni nel 1912, la sua presenza sotterranea come lettura scolastica fautrice di buoni sentimenti non si è mai interrotta. Ma nella seconda metà del Novecento si sono moltiplicati i ritorni di interesse sia accademici che militanti per la sua poesia, fomentati da critici geniali come Giacomo Debenedetti (che gli dedicò le sue lezioni universitarie 1953-’55), Pier Paolo Pasolini (che adottò in funzione antinovecentista lo schema pascoliano del poemetto in terzine) e Cesare Garboli (che gli ha dedicato anni di studio e un’opera critica tanto ramificata e vasta quanto sintomaticamente incompiuta e interminabile). Si può dire che ogni poeta e critico anti-ermetico e anti-avanguardista che abbia preferito Saba e Penna, ha finito per tornare a Pascoli e per valorizzarne qualche aspetto tematico o stilistico (da Bertolucci a Zanzotto) e più specificamente metrico. Il virtuosismo metrico di Pascoli, studioso di Alceo e di Orazio, è di per sé spettacolare, inarrivabile e quasi mostruoso. I poeti nei quali il mestiere di fare versi ha avuto, almeno in certe fasi, una particolare importanza, come in Pasolini o in Giudici, la lezione classico-sperimentale di Pascoli è risultata fondamentale. Dire classico e dire sperimentale nello stesso tempo può sembrare contraddittorio. Eppure è esattamente la mescolanza di antico e nuovo la caratteristica di Pascoli che più ha messo in difficoltà la critica. L’impressionismo parossistico e sfrenato, l’irrazionalismo parasimbolista, un’emotività ossessiva, misticamente attratta dalla possibilità di entrare in contatto intuitivo e fonosimbolico con l’"essenza” della realtà: tutto questo trascina Pascoli verso esperimenti espressivi e descrittivi nei quali le più va ...[continua]
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