È con l’auspicio e, insieme, l’appello per l’immediata apertura di canali umanitari che scrivo e condivido questo racconto.
Palermo, 6 agosto 2015
Si attende a lungo la nave ferma al porto. È dalla mattina che si ha notizia del suo arrivo. Si tratta di una nave militare messa a disposizione dal governo irlandese. Arriverà al porto di Palermo nel primo pomeriggio, carica di migranti partiti dalla Libia. Si sa anche che, insieme ai vivi, arriveranno i corpi senza vita di coloro che sono morti durante le operazioni di salvataggio, mentre circa duecento sono finiti in fondo al mare. La nave attracca. È silenzio e sospensione. La vicinanza della nave permette di delineare i volti dei superstiti, incontrarne gli sguardi, vederne i vestiti (o ciò che ne resta). Tutti fermi e calmi, stanchi. In attesa. Arriva finalmente il momento di scendere. Si formano le file. Prima donne, bambini e anziani. Seguono i giovani. File di piedi scalzi, sguardi fermi, pelle nuda. Sono i superstiti dell’ultimo dramma scritto dalle politiche dell’Unione Europea, la cui regia è lasciata ai trafficanti di essere umani. Volevano salvarsi tutti, erano partiti per salvarsi. In banchina, la schiera di giornalisti è pronta, telecamere e microfoni in azione, si accendono i riflettori su "l’ennesima tragedia in mare”. Le istituzioni e autorità presenziano la scena e rilasciano le prime interviste. Carri funebri e volanti della polizia sono in posizione. I volontari distribuiscono i viveri ai profughi disposti sotto gli stand, le pettorine di organizzazioni umanitarie sono in movimento. I corrispondenti iniziano le loro cronache e sui diversi microfoni ridondano le stesse parole, in lingue diverse. Si sentono, a ripetizione, la descrizione dello sbarco, la dinamica del rovesciamento del gommone, le dichiarazioni delle prefettura sui trasferimenti di vivi e morti. Tutto si muove in un’atmosfera di sospensione. Sono scesi i vivi, ma si attende che vengano scaricate le 25 salme delle vittime recuperate. In questa attesa, che tiene ancora l’attenzione di tutti su quella nave, spiccano le sagome di corpi umani completamente bardate da un involucro bianco che le copre fino alla testa e scende sul viso; solo le orbite oculari sono libere dalla stoffa, ma protette da una maschera. La sagoma è l’unica cosa di umano che rimane appeso in quelle tute bianche in cui è sigillata l’umanità, dissimulata la compassione, risucchiata l’identità di chi le indossa. Si muovono, guardano e si lasciano guardare, si passano il caffè e attendono. Guanti, cappuccio, occhiali, tute e stivali. Corpi umani ridotti a barriere al cospetto di altri corpi umani, cesure tra noi e loro, i soccorritori e i soccorsi... I sani e i potenziali malati. Un corpo a corpo di frontiere. Sono i membri dell’equipaggio militare, coloro che hanno soccorso il barcone. Al momento si limitano a osservare cosa accade in banchina e aspettano gli ordini. Presto avranno un ultimo ruolo da ricoprire in questa surreale scena. Si vedono alcuni dei profughi, scesi precedentemente, venire riaccompagnati sulla nave. Non c’è dubbio, sono i parenti delle vittime. È il momento di dare l’ultimo saluto ai corpi freddi dei loro cari che avevano iniziato il viaggio con loro. Il furgone dell’agenzia di pompe funebri fa manovra, si gira e si dispone davanti allo scalo della nave, iniziano a uscire casse da morto in compensato che vengono portate a poppa da altre tute bianche, sotto le quali ora ci sono gli addetti dell’agenzia funebre. Guardo una donna siriana che è risalita sulla nave e che ora ha raggiungo la parte posteriore dell’imbarcazione. È qui che giacciono i corpi che vengono man mano riposti nelle casse. È qui che c’è il corpo senza vita di suo figlio. Il capo della donna è coperto e fermo come il suo sguardo. Vicino a lei, il marito, che l’ha raggiunta ora, appoggia la fronte sul bordo di un gommone di salvataggio e se ne sta lì, così, per minuti interi. Non parlano. Ora entrambi si muovono e riscendono seguendo la cassa in cui c’è il corpo del loro bambino. I militari coperti dalle tute bianche scendono a terra per fare il picchetto d’onore a quella vita spezzata
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