Rifiuto, estraneità, lutto, evasione: dall’inizio del Novecento alla Prima guerra mondiale, sembra che la cosiddetta "belle époque” tanto bella non sia stata per i poeti italiani. La stessa euforia del Futurismo, nel suo abbraccio alla modernità meccanica, ha qualcosa di isterico e di sinistro. Il crepuscolarismo è estenuante come una lenta emorragia. Eppure a volte c’è una felicità che neutralizza le ciclotimie euforico-depressive. Ci sono stati poeti dei quali sembra che con il passare dei decenni la storiografia e la critica non abbiano saputo che farsene. Poeti di cui restano scarsa memoria e dubbia considerazione. Farei anzitutto due nomi: Corrado Govoni e Marino Moretti. Ma se si accetta l’accostamento dei due, una correzione va fatta, perché il prestigio antologico riconosciuto a Govoni sembra garantito, mentre la stessa cosa non vale per Moretti più spesso dimenticato.
A Govoni si riconosce subito (lo ha fatto il neoavanguardista Sanguineti) un merito storico e tecnico di modernità: non solo per la "conciliazione” fra liberty e crepuscolarismo, ma per l’audacia degli accostamenti sia analogici ("surreali”) che enumerativi e per le sfrenatezze immaginative con cui tenta istintivamente l’inusitato.
Mentre Moretti appare più modestamente prosastico, una versione "pascoliana” della poesia  crepuscolare, di cui appare perfino come un rappresentante marginale se confrontato con due opposti prototipi come Gozzano e Corazzini.
Ma oggi che il problema ossessivo delle correnti poetiche più o meno "avanzate” e della modernità raggiunta o non raggiunta interessa poco o niente, Govoni e Moretti possono essere accostati per ragioni diverse. Sanguineti, lodando le oltranze inventive di un Govoni all’avanguardia, era annoiato dalle sue "lungaggini” e dai suoi "sbandamenti descrittivi”, che bisognava, secondo lui, accantonare. In Moretti queste lungaggini e questi sbandamenti sono la norma e il suo punto di forza. La sua oltranza è più morale che letteraria. Costruisce sull’enunciato più spaventosamente e audacemente umile: "io non ho nulla da dire”. Mentre Sanguineti ha perorato a favore di Govoni per l’esemplarità "un po’ allo stato selvaggio” del suo "fare moderno”, Giulio Ferroni privilegia invece in Moretti "una sorta di vuoto totale”, l’"abbandono di ogni valore” e l’"accettazione incondizionata della normalità più dimessa”.
Se oltre alle valutazioni di tendenza si evitano anche le contrapposizioni caratteriali e tecniche, Govoni e Moretti spiccano per la pura e semplice felicità e facilità con cui scrivono. La sintonia immediata, fisica con cui aderiscono al presente ha qualcosa di astorico e di antistorico. Ma proprio per questa loro indifferenza agli schemi ideologici, riescono a registrare il loro presente con un’evidenza e una precisione che ne restituiscono pienamente, innocentemente il colore storico. Più visivo, pittorico, esplosivo Govoni, più melodico, intimo e realistico Moretti. Ciò che li accomuna e li rende poco attraenti per la critica filosofeggiante e storicizzante è la loro naturale refrattarietà alle idee. Scrivono poesia dopo aver messo da parte, azzerato, dimenticato i problemi posti da qualunque idea preliminare di poesia. La felicità e naturalezza con cui hanno scritto è la stessa con cui li si legge.
Ma guardiamoli un po’ più da vicino. Nato nel 1884 in provincia di Ferrara, in un paese del delta padano, Govoni viene dalla campagna e dal mondo rurale più che dagli studi letterari. Le sue poesie nascono anzitutto da un’energica freschezza di percezione. Isolare in lui un’originalità modernistica di accostamenti fantastici svalutando il vigore dell’istinto descrittivo, vuol dire non capirlo. In Govoni si esprime una molto italica estraneità alla storia, ai suoi progressi e regressi. Gli interessa piuttosto ciò che non cambia. Nella poesia intitolata "Dolcezze” (1907) esplode la sua voracità di cose buone, semplici e vere, eccitanti e confortanti. Ma diversamente che a Gozzano, a Govoni non viene neppure in mente se sono cose di buon gusto o di pessimo gusto: è troppo sano per giudicarle prima di averne goduto. Se in lui c’è un crepuscolo, è un crepuscolo gioioso. Pascoli e D’Annunzio sono fatti a pezzi, sottratti a ogni intonazione letteraria e trattati come repertori verbali semplicemente da saccheggiare. Govoni perciò non rovescia, come si dice, la tradizione letteraria: la schiva e ne fa a meno. Parte da zero, enumera:

Le domeniche azzurre della primavera.
...[continua]

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