Quest’anno, durante l’intervista televisiva nella diretta dal Memoriale di Potočari, ho dimenticato di ringraziare tutte le persone comuni che, sfidando il caldo torrido, forse per la decima o quindicesima volta, sono ritornate in autobus a rendere omaggio alle vittime del genocidio. Sventurati quelli che non sono arrivati a Potočari in automobile con l’aria condizionata e quelli che hanno dovuto aspettare ore -dopo la cerimonia- per risalire in pullman trasformati in forni, per ritornare a casa da qualche parte in Federazione, in Croazia, nel Sangiaccato o in qualche altro luogo da cui hanno viaggiato per molte ore per essere qui, alla ricorrenza dell’11, anniversario del genocidio di Srebrenica, per stare vicino alle madri di Srebrenica e al loro dolore.
Mentre se ne vanno tutti guardo, in piedi, verso l’ex base olandese dell’Unprofor: cercano dell’acqua per riempire le bottiglie o per rinfrescarsi, cercano un bagno prima di risalire sugli autobus e attraversare la Republika Srpska per arrivare in Federazione. L’autista ha aperto tutte le porte dell’autobus e qualcuno si è seduto sugli scalini con le gambe a penzoloni vicino alle ruote. Fa caldo, sono tutti sudati… "Eh, facci arrivare a casa”, sembrano pensare queste persone, e io le osservo e penso: "Grazie, gente, per essere venuti anche questa volta. Non siamo soli”. Lasciano Srebrenica ai suoi abitanti; passati altri 364 giorni, ritorneranno, se dio vuole, per commemorare questo giorno importante per la Bosnia, per i bosgnacchi, per i bosniaco-erzegovesi e per tutti coloro che conoscono il significato di questo giorno.
Nella Srebrenica deserta
Attraverso il cimitero, la vista è offuscata dalla polvere che non è ancora calata dopo che le ossa dei martiri sono state sepolte nella terra inaridita. Madri, sorelle, vedove e sopravvissuti rimangono accanto alle tombe, pronunciano la Fatiha -la liturgia del lutto- piangono, esitano, non sanno se andare o rimanere ancora qualche minuto prima della partenza. I giornalisti ripongono l’attrezzatura, sistemano i cavi, smontano le antenne… se ne vanno a Sarajevo, a Tuzla, Zagabria, Belgrado…
Non vedo i vip: le loro limousine nere hanno attraversato la folla prima che le persone con i badili iniziassero a interrare le bare. Gli abitanti di Srebrenica invece rimangono nella città deserta. La città è di nuovo vuota. Domani ci sarà ancora un po’ di traffico, principalmente giornalisti che negli ultimi anni hanno ricevuto l’incarico dai loro capi di rimanere anche il 12 luglio per documentare un altro evento -la parata dei četnici a Srebrenica. C’è anche questo sui media e poi arriva il 13 luglio e di Srebrenica non si parla e non si scrive più.
Cominciano quegli altri 364 giorni, quando per gli abitanti di Srebrenica la vita dovrebbe trascorrere come in ogni altra città della Bosnia-Erzegovina. Ma non è così. Come non lo è per i bosgnacchi che sono tornati nelle municipalità di Bratunac, Vlasenica, Han-Pijesak, Zvornik, Rogatica, Višegrad. Le cittadine da cui, a causa del genocidio, i bosgnacchi, a partire dall’aprile 1992, fuggirono verso Srebrenica; circa metà delle vittime del massacro commesso a luglio del 1995 era originaria di questi luoghi.
Non voglio entrare nei dettagli di questa storia, ma voglio sottolineare che quello che noi chiamiamo il genocidio di Srebrenica non è riferito solo a Srebrenica, non è un genocidio circoscritto a un Comune, agli abitanti di solo una municipalità, perché il "genocidio di una municipalità” non esiste come concetto teorico, e comunque gli assassini di Mladić non si sono fatti fermare dai confini municipali. La stessa sentenza della giustizia internazionale del 27 febbraio 2007, nel processo contro la Serbia e il Montenegro parla di: "… genocidio commesso nei confronti dei musulmani di Bosnia-Erzegovina da parte dell’Esercito e della Polizia della Republika Srpska”.
E tuttavia l’unica municipalità tra quelle colpite dal genocidio nella regione intorno alla Drina (e sono state colpite tutte, anche se ci soffermiamo solo sugli eventi del luglio 1995, senza ...[continua]
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