Una delle caratteristiche più interessanti per il lettore di Mario Luzi, anzi il pathos morale e letterario che rende la sua storia di poeta così carica di tensione dinamica, è il superamento del suo ermetismo giovanile, la sua ricerca di un’autoanalisi esistenziale più circostanziata. Si tratta sia di un cambiamento di ottica che di una svolta linguistica. Dall’astrazione metaforica e visionaria si passa a una specie di realismo della coscienza. Questa storia presenta poi un dato emotivamente e intellettualmente abbastanza insolito in un poeta lirico: l’ammirazione e l’amicizia per un coetaneo come Vittorio Sereni, al quale Luzi cominciò presto a guardare quasi come si guarda a una guida e a un modello, o a un compagno di viaggio da seguire e a cui ispirarsi. Un tale itinerario culmina e si conclude con il libro più anomalo e sorprendente di Luzi, Nel magma, pubblicato nel 1963: secondo alcuni la sua opera migliore, benché sia anche la meno caratteristica. Strana circostanza per un poeta così dotato: aver dato forse il meglio di sé proprio quando somigliava meno a se stesso.

Nell’antologia (già in precedenza citata) di Giacinto Spagnoletti, Poesia italiana contemporanea 1909-1959, che uscì per le edizioni Guanda in una collana, la "Fenice”, diretta da quell’altro coetaneo di Luzi, da lui diversissimo, che è Attilio Bertolucci, si può leggere una testimonianza autobiografico-letteraria in cui Luzi mette al primo posto proprio il suo problema di giovane poeta ermetico diventato dopo la guerra, per volontaria consapevolezza, un poeta della "coscienza” e dell’ "esperienza”. Luzi mostra subito di aver sofferto lungamente della polemica antiermetica che la generazione più giovane, quella dei nati negli anni Venti (la generazione, per intenderci, di Pasolini), aveva aperto dopo il 1945.

Il linguaggio nel quale Luzi si esprime in quella testimonianza scritta per l’antologia di Spagnoletti è piuttosto astratto e impacciato e segnala un evidente disagio. Sente che lui per primo, per le sue poesie giovanili degli anni Trenta, potrebbe essere il maggiore bersaglio di quella polemica. Difende perciò il carattere avventuroso e "romantico” dei suoi esordi, ricordando che quando lui, nato nel 1914, cominciò ventenne a scrivere, la poesia novecentesca era già fissata in una sua tradizione che lo "metteva a disagio” come "una sorta di apriori”. Era un modo di fare poesia, quello della sua fase ermetica, che quindi già annunciava la svolta successiva: perché "il mondo non si possiede né si riduce alle nostre particolarità (…) non sopporta una preliminare deformazione, ma si ripropone di continuo come un confronto totale per la nostra coscienza e la nostra esperienza”.

Sembra quasi che Luzi formuli a modo suo quella poetica dello sperimentalismo (o neo-sperimentalismo) su cui il più giovane antagonista, Pasolini, aveva teorizzato in un articolo del 1956 comparso sulla rivista "Officina”: poesia come ricerca continua, "confronto totale” con "il mondo” (questi sono i termini di Luzi) e perciò rifiuto di ogni apriori, di ogni "preliminare deformazione” ideologica, intellettualistica, moralistica.

In effetti Luzi aveva molto precocemente guardato a Sereni come a un poeta dell’esperienza (di guerra e di prigionia) e non dell’immaginazione: poeta che aveva praticato in Diario d’Algeria una riduzione dell’immaginazione letteraria e non (come era accaduto al Luzi ermetico) una sua dilatazione.

Ed ecco il punto dolente: "il moto che promosse intorno al Cinquanta la polemica dei giovani contro l’ermetismo aveva a mio avviso una affinità di fondo con le aspirazioni che ora ho enunciato. Perché dunque codesta polemica fu dura soprattutto nei miei riguardi?”. Anche io, vuole dire Luzi, anche come ermetico, nella mia "tensione giovanile”, ero in un certo senso sperimentale, o avventuroso, perché privo di certezze. Si trattava di portare la poesia "alla conquista di un’espressione oggettiva”, ma i due modi "divergevano profondamente”. Eppure, continua Luzi, nel 1959, "a dire il vero una scelta definitiva non esisteva né in principio né in fatto fino a quando Pasolini non si assunse di costituire in ideologia la mancanza di ideologie e in tesi linguistiche la mancanza di un preciso orientamento del linguaggio. Avevamo davanti agli occhi, sotto un’etichetta di realismo poi pian piano prudentemente ritirata, un’agitazione generosa ma confusa di frammenti carpiti alla realtà documentaria in chiave cosmopolita e dialetta ...[continua]

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