Ho da poco passato un mese in Palestina. Gli Interventi Civili di Pace con cui sono partita mi hanno portato negli uliveti della West Bank. Raccogliendo le olive fianco a fianco dei palestinesi, nel progetto si mira a costruire relazioni dirette e orizzontali con i contadini e gli abitanti dei posti dove siamo temporaneamente ospiti. Ed è proprio durante una di queste giornate di raccolta che conosco Aisha, nipote di Hanan Al Hroub, l’insegnante palestinese che ha ricevuto nel 2016 il Global Teacher Prize per il metodo che applica nelle sue classi.
Siamo nella valle del Wadi. Affaticate dal caldo intenso della giornata ci attardiamo qualche minuto con la ragazza all’ombra di un ulivo. Parliamo della situazione che vivono i giovani palestinesi, della voglia di crescere e studiare e, allo stesso tempo, di continuare a resistere e combattere perché un giorno il popolo palestinese possa vivere libero nelle sue terre. Nonostante l’immensa calma la giovane trasuda energia e voglia di raccontarsi. Riprendiamo il lavoro con la testa piena di pensieri e riflessioni.
Verso il tramonto arrivano al campo due uomini di ritorno dal lavoro nel cantiere (in una vicina colonia). Uno di loro è proprio il fratello di Hanan Hroub. Mi propone di chiamarla e così parlo con lei al telefono. Mi ringrazia per il lavoro che stiamo facendo, per il supporto e l’energia positiva che portiamo nelle loro terre. Le dico che sarei molto interessata a sapere di più del suo metodo e della sua esperienza di insegnante: prendiamo appuntamento per vederci di persona.
È così, grazie alla relazione diretta creata tra gli ulivi, che ho avuto la possibilità di incontrarla e scambiare con lei alcune riflessioni sul sistema educativo palestinese.
Hanan Hroub è un’insegnante elementare in una classe di livello 2, bambini dai 6 ai 7 anni, corrispondente quindi al nostro secondo anno di scuola primaria. Hanan è una donna sulla quarantina, il suo volto è incorniciato da un delicato velo floreale e il suo sguardo estremamente calmo ma carico allo stesso tempo, mi ricorda immensamente quello della nipote. Sostiene di non parlare inglese molto bene, ma la conversazione è fluida e piacevole.
Hanan è una rifugiata, il suo villaggio di origine è Al-Kabù, da lì i palestinesi sono stati estromessi, la sua famiglia è tra quelle rifugiate dal 1948. È nata e cresciuta al campo profughi di Deisha nella non più periferia di Betlemme. Ha frequentato le scuole elementari dell’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi), ha conseguito poi il diploma superiore in una scuola pubblica governativa di Betlemme, mentre si è recata a Ramallah per frequentare l’Università, dove ha studiato educazione primaria. Hanan si è sposata con un uomo di Wadifukin, villaggio al confine tra i Territori palestinesi e Israele circondato da due enormi colonie. Ora lavora a Ramallah, la capitale della Palestina: "Sono nata in un campo profughi, mi sono sposata in un villaggio e ora vivo e lavoro in una città, trovo curiosa questa sorta di evoluzione”, dice la maestra.
"Il metodo che applico, per il quale ho ricevuto il premio, è nato in casa, dalla mia esperienza come rifugiata, come madre e come insegnate palestinese”. Learning by play è un metodo molto usato in tutto il mondo, ma acquista un significato particolare in Palestina, dove i bambini di questi luoghi spesso non hanno un’infanzia giocosa come la potremmo e vorremmo immaginare.
Nella scuola dove insegna Hanan, gli alunni vengono tanto da Ramallah, quanto dal campo profughi e dai villaggi vicini. Tutti loro hanno esperienza quotidiana, o quasi, della violenza dell’occupazione. La vedono negli arresti continui (soprattutto nei campi profughi è quasi impossibile trovare una famiglia che non abbia avuto qualche membro detenuto); la vivono nelle frequenti incursioni dell’esercito nelle strade se non addirittura nelle case; la vivono ai checkpoint che devono attraversare per recarsi da un villaggio a un altro; la vivono nei loro documenti inadatti a passare alcuna frontiera, rilasciati da uno stato che non ha riconoscimento internazionale. Ma soprattutto la violenza che subiscono i bambini, tanto quanto tutta la società palestinese, è quella latente e onnipresente che avviene nelle loro menti: l’occupazione, e tutte le sue ramificazioni, per moltissimi di loro diventa un pensiero costante difficile da tenere sopito.
Hanan ritrova e riconosce gli effetti di questa violenza nei compo
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