Giorgio Caproni (1912-1990), dopo il suo Congedo del viaggiatore cerimonioso, uscito a metà degli anni Sessanta, fece aspettare i suoi lettori per un decennio prima di riapparire con un altro dei suoi libri fondamentali, Il muro della terra. Da questo momento in poi Caproni cominciò a essere riscoperto come uno dei maggiori e più originali poeti del Novecento, raggiungendo un nuovo e più ampio pubblico che continuò a crescere e che non lo abbandonerà più.
Il suo stile stava cambiando e con Il franco cacciatore (1982) si vide chiaramente che tendeva a contrarsi in strofe brevi o brevissime, minuscole, creando intorno alle parole vuoti e sospensioni che finivano per circondare e invadere testi scritti sempre più magri e volatili, lapidari e leggeri nello stesso tempo, tenuti insieme da rime naturali e fulminanti. Tutte le sue poesie somigliavano perciò a clausole di un discorso presupposto, che però mancava. Già nel Muro della terra erano comparse poesie su temi immensi bruciati in un attimo. Per esempio:
Dio di volontà,
Dio onnipotente, cerca
(sfòrzati), a furia d’insistere
-almeno- di esistere.
(Preghiera d’esortazione o di incoraggiamento)
Oppure questo Pensiero pio:
Sta forse nel suo non essere
l’immensità di Dio?
Anche quello dei libri successivi, Il franco cacciatore, Il Conte di Kevenhuller (1986) e Res a missa (1991), è un mondo che si svuota, che si spopola come se la realtà fisica, concreta e percepibile, venisse progressivamente a mancare e offrisse alla poesia poca materia, sempre meno. Nel primo di questi libri, l’autore è diventato un "cacciatore” di realtà che aspetta a lungo e invano le sue prede:
Sedetti fuori dell’osteria,
al limite della foresta.
Aspettai invano. Ore e ore.
Nessun predace in cresta
apparve della Malinconia.
Aspettai ancora. Altre ore.
Pensai, in straziata allegria,
al colpo fulminante
del franco cacciatore.
(Antefatto)
L’autore-personaggio è un uomo in attesa, in un occasionale, desolante aldilà della vita. È solo, aspetta, e non succede niente. Non c’è nessuna preda da afferrare, da colpire. Appare qui la figura numinosa della Malinconia a fare rima con una "straziata allegria”. Questo è dunque l’antefatto che fonda la situazione del libro: un attendere in solitudine, un inutile essere pronto, finché:
L’occasione era bella.
Volli sparare anch’io.
Puntai in alto. Una stella
o l’occhio (il gelo) di Dio?
(L’occasione)
Ma la bella occasione di caccia e il punto in alto non incontrano nessun bersaglio. Il cielo è vuoto e il solo bersaglio possibile, è impossibile. Non si spara a una stella che forse è l’occhio gelido di un Dio sconosciuto e forse assente. L’improprietà, la sproporzione fra il mezzo e il fine, il fucile e il bersaglio, sono beffardamente incommensurabili. L’umano abita in una non umana assenza di presenze e di ragioni. Il Dio negato e assente si fa però, nel vuoto, più presente che mai. Senza di lui, anche la morte e la sua attesa sono prive di contenuto ("Moriamo con noncuranza. / Liberi. D’ogni speranza”).
E quando, se per caso una voce afferma o grida che Dio è tornato a comparire nel suo Messia, quella voce è falsa, è orribile, evoca un fantasma privo di realtà, un agghiacciante manufatto:
Gridava come un ossesso.
"Cristo è qui! È qui!
LUI! Qui fra noi! Adesso!
Anche se non si vede!
Anche se non si sente!”
La voce, era repellente.
Spensi.
Feci per andare al cesso.
Ci s’era rinchiuso LUI,
a piangere.
Una statua di gesso.
(Telemessa)
La rete di questi epigrammi, una rete, si potrebbe dire, che non pesca pesci ma solo acqua, delinea un itinerario della mente a tappe diradate, soste prolungate, messaggi senza risposta. È una poesia di negazioni e di cancellazioni. L ...[continua]
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