Guardando bambini, anche molto piccoli, che giocano, si ha quasi la sensazione che applichino naturalmente le regole che consentono loro di giocare insieme. Se qualcuno le viola, smettono di giocare, perché senza regole il gioco non è più possibile. Forse le regole se le sono inventate spontaneamente. Che le regole siano qualcosa di innato nella specie umana o meno è questione affascinante, ma non è su questo che voglio riflettere qui. Personalmente, non credo che la cooperazione sia iscritta nel codice genetico della specie. È qualcosa che si impara, fa parte della cultura, la natura ne predispone solo la possibilità. Di fatto, tra gli adulti c’è chi è capace di cooperare con gli altri e c’è invece chi non ci riesce o, addirittura, riesce ad ostacolare che altri cooperino. Siccome siamo tutti (o quasi) convinti che è migliore una società dove è massimo il numero di coloro che facilitano la cooperazione ed è minimo quello di coloro che la sabotano, è utile chiedersi come si fa a incoraggiare gli uni e a scoraggiare gli altri. È uno, o forse il, grande tema dell’educazione. Come si fa a far in modo che cresca il numero di coloro che hanno una disposizione positiva verso la cooperazione? Come si fa a rafforzare questa disposizione in una popolazione in generale?
Non penso al movimento cooperativo istituzionalizzato che costituisce una grande realtà economica nel mondo delle imprese che operano sul mercato. Mi auguro che si rafforzi ulteriormente, ma non mi sembra che nella fase storica attuale possa influire in modo decisivo sulla cultura della cooperazione, neppure tanto tra i giovani che vi lavorano. Penso piuttosto a quelle cellule di cooperazione che si sviluppano a livello micro-sociale nei gruppi di acquisto solidale e a fenomeni simili che richiamano storicamente le tendenze mutualistiche agli albori del movimento operaio. Penso comunque che lo "spirito della cooperazione” sia prima di tutto un problema educativo.
È piuttosto ovvio far riferimento alla scuola. Nella pedagogia moderna, infatti, una delle correnti più interessanti e innovative si richiama all’apprendimento cooperativo (cooperative learning), dove l’insegnante non si limita a fare lezione e a verificare nelle interrogazioni quanto di quello che ha detto è entrato nelle teste dei suoi alunni, ma organizza l’interazione tra gli alunni in modo che questi possano apprendere anche dagli scambi reciproci coi compagni. Nella scuola italiana queste metodologie didattiche stentano ad affermarsi, anche perché gli stessi insegnanti non sono abituati a cooperare tra di loro.
C’è in realtà una forma di cooperazione che è molto diffusa tra gli scolari e gli studenti di ogni ordine e grado. È quella che si sviluppa nei compiti in classe, dove è quasi d’obbligo copiare e lasciar copiare. Anche questa cooperazione ha le sue regole, ma è sostanzialmente una cooperazione che si realizza nella violazione delle regole della competizione e delle regole che commisurano la valutazione alla qualità delle prestazioni. Si coopera nella sfida all’autorità che impone le regole, che di fatto spesso chiude uno o tutti e due gli occhi di fronte alla loro violazione. Diciamo che è una cooperazione antagonistica, non molto diversa da quella di una banda di ladri che organizzano un colpo, oppure quella che si manifesta tra il cliente e il professionista (idraulico o chirurgo) che non vuole emettere fattura nei confronti dell’autorità fiscale. La cooperazione diventa complicità. La fenomenologia di queste forme di cooperazione antagonistica verso l’autorità è, specie nel nostro paese, assai varia e ho il sospetto che si incominci ad apprenderla proprio sui banchi di scuola.
Penso che gli insegnanti dovrebbero essere più severi nel reprimere la pratica della copiatura: la cooperazione può essere messa in atto in molti altri momenti del processo di insegnamento/apprendimento, deve però essere sospesa nel momento della valutazione. Però, in questo come in altri casi, non ho molta fiducia sull’efficacia delle repressione come strumento educativo. In certi casi si corre addirittura il rischio di rafforzare, invece che ostacolare, i comportamenti che si vogliono reprimere. Sicuramente più efficace è la possibilità di fare esperienza degli effetti positivi e gratificanti della cooperazione. In breve, i luoghi privilegiati di apprendimento della cooperazione sono quelli dove è presente una componente ludica. Ritorniamo quindi all’importanza del gioco. Mi limito a sottolineare due ambiti dove la cooperazione è nello stesso tempo necessaria e gratificante: lo sport e la musica.
Non parlo degli sport individuali o dei solisti che si esibiscono individualmente, ma degli sport di squadra e dei complessi musicali. Alcuni insegnanti tradizionali guardano con sospetto e anche con una certa ostilità a queste attività para o extra-scolastiche come se il tempo e le energie loro dedicate fossero sottratte allo studio. Credo sia vero il contrario.
È ovvio che negli sport collettivi, "fare squadra” è un fattore decisivo nella competizione. "Fare squadra” -tutti i bravi allenatori lo sanno- non vuol dire soffocare l’individualità dei singoli giocatori, ma metterla al servizio della collettività: l’individualità si esprime al meglio proprio attraverso la cooperazione. Nel gioco del calcio, chi non passa mai la palla al compagno "smarcato” finisce per compromettere il risultato. Nello sport, oltre alla cooperazione all’interno della squadra, c’è poi anche la cooperazione con gli avversari nel rispetto delle regole del gioco, la cosiddetta "lealtà”. Sappiamo bene come nello sport "spettacolo” praticato in modo professionistico queste regole siano frequentemente violate (magari proprio su istigazione degli allenatori) e come questi "cattivi esempi” trovino frequenti imitatori anche tra i praticanti "amatoriali”. Ciò non toglie che l’esperienza sportiva mantenga una straordinaria valenza educativa quando si vuole rafforzare in una società la disposizione alla cooperazione. Al di là delle minoranze dove lo sport diventa una professione (sia pure per un numero limitato di anni), la diffusione della pratica e anche dell’associazionismo sportivi sono un indicatore indiretto, ma piuttosto affidabile, della presenza di una "cultura della cooperazione” nella popolazione giovanile e che in Italia vi siano circa un ragazzo su due e due ragazze su tre che non praticano sport con una certa continuità non è un segnale incoraggiante.
Lo stesso discorso vale ancor più nella musica dove l’elemento competitivo/agonistico è del tutto secondario, quando non del tutto assente. Cantare in coro o suonare insieme in un complesso o in un’orchestra è un’attività cooperativa al massimo grado. Richiede un elevato controllo delle proprie abilità al fine di armonizzare la propria prestazione con quella degli altri. Il rapporto tra la componente individuale e quella collettiva varia a seconda del tipo di musica: nel coro, a meno che non sia previsto altrimenti, il massimo risultato si ottiene quando le varie voci si fondono insieme in modo tale che non si possano più distinguere singolarmente; in una banda jazz, invece, a turno ogni componente si esibisce in un assolo che ne esalta la bravura individuale. Ma anche in questo caso la cooperazione degli altri è assolutamente indispensabile.
Vi sono paesi dove ogni scuola ha il suo coro e la sua orchestra (così come la sua squadra degli sport più diffusi). Qualcuno avrà sentito parlare della straordinaria esperienza dell’orchestra venezuelana Simon Bolivar che è il vertice di un grande movimento di più di seicento orchestre giovanili sparse in ogni città e in ogni villaggio che coinvolgono centinaia di migliaia di giovani strumentisti spesso reclutati nei quartieri più poveri. Sicuramente far musica insieme è uno strumento efficace per combattere devianza e criminalità giovanile. Da noi, un tempo, ogni paese aveva la sua banda musicale. Oggi questa pratica sembra fortemente in declino. Vorrei sbagliarmi. Il movimento delle orchestre giovanili sta facendo i primi passi in diverse città, ma per il momento resta ancora un fenomeno piuttosto elitario. Queste attività non servono a scovare i talenti e ad immetterli in un percorso che li farà diventare dei divi o dei solisti famosi. Magari uno su mille potrà fare una brillante carriera. Ma non è questo il fine. Il valore sociale di queste esperienze non si misura col numero delle eccellenze che produce, ma con l’incremento della disposizione alla cooperazione che coltiva nella popolazione. Ecco perché, accanto alle lezioni sulla Costituzione repubblicana e sulla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, bisognerebbe diffondere la pratica sportiva e musicale. Si dice che in Italia c’è un deficit di etica pubblica e di segnali che questo sia vero ne abbiamo tantissimi, anche senza tirare in ballo le inchieste dei sociologi e degli psicologi sociali. Se guardiamo fuori dai nostri confini ci accorgiamo che forse alla cultura civica si può meglio arrivare passando per la cultura musicale e per una più sana e diversa cultura sportiva.