E’ una storia un po’ strana per me, perché sono abituato a raccontare io le cose e non a fare delle cose che vengano poi raccontate da altri. Sono anche in imbarazzo a parlarne, è una storia molto personale, che si è costruita anche con degli affetti: questo bambino vive con me, è in affido e c’è anche un bel rapporto. E’ una storia personale ma che ha anche una sua utilità pubblica, fa riflettere, nel senso che il fatto di portare via questo bambino di nascosto ci ricorda che Sarajevo è una città assediata, da dove i cittadini non possono uscire, gli unici che passano sono le forze dell’ONU e i giornalisti.
E’ una storia con delle preoccupazioni, sta affrontando adesso il problema di camminare, si regge già in piedi su una prima protesi provvisoria e sto facendo le carte per farne una seconda; sono tutte provvisorie, dovrà cambiarne una ogni sei mesi, proprio perché sono gli anni di crescita impetuosa.
Che età ha il bambino?
Ha quattordici mesi. E’ un bambino molto piccolo. La storia sua è presto detta. Il problema principale riguarda il padre, che è rimasto a Sarajevo, col quale i rapporti sono piuttosto difficili, se non impossibili; le ultime notizie che noi abbiamo di lui e che lui ha di noi risalgono a Natale. Lì non ci sono i telefoni naturalmente, non c’è un servizio di posta. Le poche notizie che si hanno di storie individuali sono in genere affidate alle poche persone che riescono a venirne fuori in un modo o nell’altro o a colleghi giornalisti che vanno giù e che quindi possono portare una lettera, una fotografia e riportare le notizie. Comunque noi da Natale non abbiamo più notizie del padre di questo bambino. E’ un ragazzo di 24 anni, non è un combattente, è un ex-operaio saldatore, lavorava nella fabbrica più grossa che c’era a Sarajevo.
Ho conosciuto questo bambino in giugno, lui allora aveva 5/6 mesi. A maggio una granata era scoppiata di fronte a casa sua, nella periferia est di Sarajevo, in una di quelle case non in campagna, ma dove la città non è ancora cominciata ed è vicina alla prima linea. A mezzogiorno sparavano verso casa sua, la madre spaventata ha attraversato la strada, cercando di correre dai vicini, la granata è caduta a pochi metri da loro, la madre è morta sul colpo e il bambino ha perso la gamba. Io l’ho conosciuto in ospedale, stavo facendo un servizio sui bambini e la guerra. Allora non se ne parlava molto, cioè si parlava della guerra di Sarajevo, ma non che si stava distruggendo un mondo, bello o brutto che fosse, e si stava segnando per sempre una generazione che sta crescendo.
Si può ben immaginare cosa vuol dire che tutte le classi scolastiche di Sarajevo quest’anno hanno dovuto imparare come si sopravvive ad un assedio.
In questa seconda metà del secolo una città con quasi 400.000 civili che sono ostaggi è una cosa senza precedenti. Io credo che un domani ci sarà del lavoro da fare per gli psicologi, per studiare una generazione di bambini che ha vissuto la scomparsa di amici coetanei morti. Io stavo facendo appunto un servizio su questo e mi sono recato in un reparto dell’ospedale principale di Sarajevo. Stavo finendo il servizio quando mi hanno tirato per la giacca e portato in una stanza dove c’era questo bambino. Sul primo momento non mi ero neppure reso conto che il bambino avesse perso la gamba perché era tutto infagottato. Mi aveva colpito molto il fatto che fosse allegro, che sorridesse. Sono poi ritornato a Sarajevo una volta successiva per fare altri servizi e una seconda volta, a novembre, sono ritornato in ospedale per rivedere il bambino che aveva colpito me come gli operatori, che sono sloveni. Il bambino era già stato dimesso ed io ingenuamente pensavo che avesse già una protesi. Ho chiesto l’indirizzo di casa per andarlo a trovare, volevo portargli della cioccolata. Mi avevano sconsigliato di andare perché il posto era molto pericoloso, la casa infatti era in prima linea. Mi ero insospettito perché immaginavo che non potesse recarsi in ospedale per fare fisio-terapia se il posto dove abitava era tanto rischioso. Quando ho raggiunto la casa vi ho trovato suo padre che era disperato perché passavano i mesi e questo bambino era costretto a restare chiuso in casa, una casa che sembrava un bunker perché avevano murato le porte e le finestre che davano sul lato dove i cecchini potevano sparare. Il bambino era impossibilitato a ricevere una protesi proprio nel momento in cui avr ...[continua]
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