Il quadro del rapporto fra nord e sud del mondo sembra peggiorare sempre più, è veramente così?
Nel XVIII secolo la ricchezza del nord era di circa due volte maggiore di quella del sud; dopo la seconda guerra mondiale questa differenza era aumentata di circa 40 volte, oggi il divario tra nord e sud è di circa 60-70 volte. Per dirlo in altro modo, lo sviluppo si è rivelato un enorme fallimento perché la ricchezza del nord non ha mai smesso di crescere, mentre la ricchezza del sud, fatta eccezione per alcuni progressi in qualche paese, è sempre stata depredata. L’85% della ricchezza del mondo resta in alto, nelle mani del 20% della popolazione più ricca, del nord come del sud, mentre in basso, l’ultimo 20% di popolazione mondiale possiede solo l’1,4% della ricchezza mondiale. Nel nord abbiamo l’élite, la classe media e gli esclusi. Elite e classe media costituiscono forse il 70-80% delle società del nord. Questo dato ci consente di dire che nel nord non c’è ancora un numero enorme di esclusi: sono sempre di più, certo, ma in ogni caso non superano il 10-15% della popolazione. Nel sud, invece, la piramide è rovesciata. Qui l’élite è in alto, la classe media è molto meno consistente, non superando il 30% della popolazione, mentre c’è un numero enorme di esclusi. Se mettiamo insieme le due piramidi, vediamo che nel mondo, in totale, circa un terzo della popolazione è dentro il sistema, mentre i due terzi ne sono fuori. Le élites del nord e del sud sono costituite da persone cosmopolite, che si conoscono e lavorano insieme. Questa connessione tra le élites del nord e quelle del sud costituisce uno dei meccanismi fondamentali dell’esclusione perché le élites lavorano insieme e, insieme, formano il governo internazionale.
Come considera la globalizzazione economica, ormai sempre più pronunciata?
Non è più possibile decidere strategie basate su un orizzonte nazionale. In primo luogo, ci sono le compagnie transnazionali che costituiscono una forza fantastica nel mondo moderno. Se ne contano circa 40 mila, ma in realtà quelle che contano veramente sono solo 200. Io definisco queste imprese "transnazionali" perché il termine "multinazionale" dà l’impressione che ci sia una qualche dimensione nazionale di cui tener conto; in realtà, sono transnazionali perché non prendono decisioni in funzione di una nazionalità, prendono decisioni solo nel contesto globale. Queste imprese forniscono direttamente circa 75 milioni di posti di lavoro. Considerando l’indotto, possiamo raddoppiare questa cifra, per cui si può parlare di 150 milioni di posti di lavoro prodotti da queste imprese, cioè meno del 3%. Ma queste imprese hanno un volume di vendite di 5 triliardi di dollari. Nessuno sa quale sia la percentuale degli affari di queste imprese, ma sappiamo che non forniscono sufficienti posti di lavoro per occupare la gente del nord o del sud. In 12 paesi del terzo mondo hanno investito 410 miliardi di dollari creando 12 milioni di posti di lavoro. Questo significa che per ogni posto di lavoro hanno investito 34 mila dollari. Proseguendo con questo rapporto investimenti-posti di lavoro, sarà necessario aspettare secoli e miliardi di investimenti per creare una piccola parte dei posti di lavoro che sono necessari nel sud. La metà di questi 12 milioni di posti di lavoro, circa 6 milioni, sono stati creati in Cina, mentre altri 4 milioni si trovano nelle zone di esportazione: tutti sappiamo che le condizioni di lavoro in quelle zone sono spaventose, soprattutto per le donne che lavorano 10-12 ore al giorno e a 25 anni sono finite.
Queste società transnazionali, che hanno un potere immenso nel mondo, controllano i due terzi del commercio mondiale. Un primo terzo è costituito dal commercio tra filiali delle stesse compagnie, Shell con Shell, Ibm con Ibm, ecc. Quindi, un terzo del commercio mondiale non è un mercato, ma un commercio legato allo scambio tra diverse branche della stessa compagnia.
Un altro terzo del commercio mondiale è fatto di scambi tra compagnie, Ibm con Shell, Fiat ...[continua]
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