Come ho deciso di fare un film sulla storia del mio villaggio?
Io sono originaria di un luogo di cui mia madre non mi ha mai parlato. Mio padre poi è morto giovane; non l’ho conosciuto bene. A scuola ci avevano chiesto di girare un documentario, così ho iniziato a parlarne con un’amica ebrea, a cui sono molto legata. Le ho detto: “Ho bisogno di un’idea; sento che c’è qualcosa, ma è come fosse ancora in embrione”. E lei mi ha detto: “Proviamoci”. E così ho provato. Poi lei ha tradotto il progetto in ebraico e abbiamo cominciato a lavorarci. Il mio fotografo, sempre una donna, si è occupato delle immagini. Era un bel gruppo.
L’idea era questa: voglio conoscere mia madre, voglio sapere la storia della mia famiglia, della mia comunità, le speranze di questa gente, i loro desideri. C’è anche molto materiale che ho dovuto lasciare fuori dal cortometraggio. Io non sapevo niente della mia famiglia, quindi è stata dura; ho scoperto un intero mondo che mi era stato tenuto nascosto. Mia madre non l’ha presa bene e credo si veda anche dal film: mia madre urla molto, più volte ripete: “Basta, basta! Non ti voglio più ascoltare! Vai fuori!”. Abbiamo lavorato duramente, anche ripetendo molte scene, e abbiamo anche molto gridato. Io l’ho lasciata parlare.
Era il ’48 quando l’esercito israeliano arrivò e occupò la Galilea. Il mio paese si trova poco lontano dal Libano, e loro volevano occupare tutti i centri vicini al confine, per paura che scattasse una qualche forma di collaborazione tra gli arabi. Arrivarono a Bir’am, il nostro villaggio, chiesero alla gente di uscire dalle case, così da poter perquisire e cercare eventuali armi nel villaggio, dopodiché contarono gli abitanti e intimarono loro di lasciare il villaggio per 15 giorni: “Lasciate questo posto per 15 giorni, appostatevi pure vicino, e poi potrete tornare. E’ solo per questioni di sicurezza”.
La mia famiglia, mio nonno e mia nonna, uscirono e dormirono vicino ai campi. Pioveva, era freddo, non sapevano cosa fare e così tornavano talvolta alle loro case per rubare del cibo. Alla fine tornarono, ma i soldati dissero: “No, no, altri 15 giorni. Abbiamo bisogno di avere la garanzia che tutto è a posto”. E così uscirono di nuovo. A quel punto l’esercito consigliò loro di spostarsi in un villaggio vicino, Jish, a 4 km da Bir’am: “Vi diremo noi quando tornare”.
Ci sono rimasti a lungo: 15 giorni sono diventati 20, poi un mese, due, tre… sono rimasti là. Un giorno 65 persone sono tornate e si sono messe a riparare le case dalla pioggia, perché erano malridotte, ma si è presentato l’esercito e li ha cacciati, uomini e donne, a Jenin. E da Jenin sono entrati in Giordania; in quel momento tra Giordania e Israele erano in corso combattimenti, così si sono messi alla ricerca di un campo dove stabilirsi; sono andati in Siria, di lì di nuovo in Libano e infine ognuno si è poi mosso per conto suo con l’intenzione, prima o poi, di tornare in Palestina. Così anche la mia famiglia si è separata, mio nonno da una parte e mia nonna, con mia madre, da un’altra. In seguito mio nonno ha fatto in modo di riunirsi a mia nonna e alla bambina. E così sono tornati assieme a Jish, ad aspettare di poter rientrare nel proprio villaggio, perché così gli avevano detto. L’avevano promesso. La mia famiglia ha ancora la chiave di casa, e anche la documentazione che certifica che quella terra ci appartiene.
Sono passati più di 50 anni. Ma non siamo ancora tornati.
Ogni volta sembra che il governo si prenda gioco dei nostri sentimenti: “Il prossimo mese tornerete”… “entro quest’anno potrete tornare”. Ci prendono in giro. Prendono in giro le aspettative e le speranze degli arabi palestinesi.
C’è stato molto trambusto su questa vicenda, manifestazioni, richieste di poter tornare, ma l’esercito ha represso ogni dimostrazione con molta fermezza. E’ stato tutto molto duro e pesante. Furono 425 i villaggi evacuati. Comunque la gente del mio villaggio ancora sogna di tornare, rivogliono la loro terra.
Mia madre oggi abita a Jish. Io mentre studio sono stabile a Gerusalemme poi appena posso la raggiungo.
Credo di scontare un grave conflitto anche con me s ...[continua]
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