Una Città298 / 2023
dicembre 2023 - gennaio 2024


Quando qualcuno ha deciso di annegare il proprio cane dice che ha la rabbia. Quando non si ama più la libertà si dice che quella che si possiede non vale più niente, che è malata. Questo è il linguaggio dei disfattisti europei. La verità è invece che non la nostra libertà, bensì il nostro senso e il nostro gusto della libertà sono malati - o più precisamente, il senso ed il gusto dei disfattisti di cui sopra. Costoro hanno paura della libertà, ne sono stanchi e segretamente desiderano vederla sostituita da discipline massicce e da una cieca fede... coloro i quali ritengono l’Europa attuale immeritevole di una difesa sono coloro i quali hanno perduto ogni nozione della libertà reale di cui godono, o coloro che la tirannide attira nel segreto del loro cuore.

Denis De Rougemont. Le libertà che potremmo perdere. Ed. Comitato italiano per la libertà della cultura, 1951
In copertina
foto di Antonio Ferrari

Smetti di scavare
di Gary Brenner

Alcune convinzioni, molte incertezze, qualche domanda radicale
di Luigi Manconi

La coalizione delle 5 del mattino
Un’associazione per documentare i crimini di guerra
intervista a Tetiana Pechonchyk

La foodbank
A Londra una “mensa dei poveri” particolare
intervista a Helena Aksentijevic

L’angolo per la manicure
Cosa dev’essere la biblioteca se non la casa di tutti?
intervista ad Antonella Agnoli

Ho incontrato Carla...
Come può cambiare la vita di un ragazzino
intervista a Ciro Naturale

The war is not so far
Cosa pensano i lettoni della loro indipendenza?
interviste a Rita, Aldis, Edite e Madara

Il fattore esplosivo
L’incubo di Trump e della sua setta
intervista a Fabrizio Tonello

Quello che ho visto alla rivoluzione che non c’è stata
Memorie di un “weatherman”
di Michael Kazin

Theodor Adorno e i suoi Minima moralia
di Alfonso Berardinelli

Don Milani, esperienze pastorali
di Matteo Lo Presti

Il nome di Israele
di Sabina Zenobi e Cosimo Nicolini Coen

Vittime e ragione
di Vicky Franzinetti

La Caravane du Livre 2023
di Jamila Hassoune

Il bosco di La Fatarella, ricordi spagnoli
In ogni albero la targa di un internazionalista caduto
di Bettina Foa

Addio Silvia
Una cara amica ci ha lasciato
di Gianni Saporetti

Lettere dal passato
Un vecchio operaio ebreo scrive a Stalin
da “L’avvenire del Lavoratore”, 1929

La visita è alla tomba di George Orwell
La copertina è dedicata a due cittadini lettoni, che compaiono con altri in un servizio di interviste di Antonio Ferrari con domande identiche. Nelle centrali ne pubblichiamo tre. Le domande vertono sull’indipendenza riacquistata negli anni Ottanta dopo averla persa all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale, sull’adesione del loro paese alla Ue e alla Nato e sulla guerra in Ucraina. Tutti gli intervistati dicono di aver paura dei russi. Bene: noi della sinistra europea cosa siamo disposti a dir loro? Che si sono sbagliati, che dovevano restare neutrali, perché la Russia vuole e deve avere una sua “sfera d’influenza”? Che è meglio che il mondo sia multipolare e che non è colpa di nessuno se poi a qualcuno capita di vivere “sotto l’influenza”, se non sotto il tallone, di qualcun altro? Ma com’è possibile che gente che si professa di sinistra sia tanto cinica? Ora che in Ucraina la guerra potrebbe volgere al peggio, ne sentiamo tanti dire, con una certa soddisfazione, che “l’avevano detto”, che Zelenski è un pazzo, che se l’è cercata, eccetera eccetera. Ma ci rendiamo conto di ciò che tutto questo segnala? L’abbandono di ogni sentimento internazionalista in nome di uno squallido nazionalismo degli interessi; i nostri “valori di riferimento” al dunque si sono ridotti al prezzo del petrolio, all’inflazione e ai rischi, peraltro molto remoti, di essere trascinati in guerra; un relativismo culturale per cui la libertà e la democrazia, chiamati “valori occidentali”, sono un nostro patrimonio etnico, il che ci permette di pensare che altrove siano “innate” la sopraffazione, la coercizione, la repressione delle idee e della vita delle persone, in una parola il fascismo; un pacifismo che capovolge il principio più nobile dell’umanità migliore, e cioè che la libertà viene prima della vita, come ci ricorda un vecchio compagno libertario, Nico Berti, un maestro per noi; furono i verdi tedeschi, ai tempi della diatriba per l’istallazione in Europa di nuovi missili, ad alzare per primi con coraggio la bandiera della vigliaccheria: “Meglio schiavi che morti”. Così possiamo dimenticare i morti di Tienanmen, gli insorti di Hong Kong oggi piegati, le donne iraniane, ormai, e speriamo solo per ora, silenziose. Ci è comodo pensare che fossero imprese disperate, impossibili. E così, se l’Ucraina capitolerà e inizierà l’epurazione, ci risparmieremo il dolore e il rimpianto che provarono i compagni e i democratici europei quando cadde la repubblica spagnola e iniziarono le fucilazioni di massa dei resistenti. A fronte dell’aiuto ai franchisti dell’Italia e della Germania fasciste i governi di Francia e Inghilterra erano rimasti inerti. Avevano fatto bene, no? Di lì a poco, avrebbero tentato di “trattare” con Hitler. E che cosa avevano da offrirgli se non una “zona di influenza”?
Infine: siccome essere di sinistra vuol dire essere buoni, ormai tendiamo a considerare tutti gli abitanti di paesi ancora “arretrati”, e anche questo ovviamente per colpa nostra, come dei poveri irresponsabili, dei “poveracci”, incapaci di darsi degli statuti morali. Se commettono dei crimini, la colpa va nel conto di quelle dell’Occidente colonialista e imperialista, di cui Israele resta l’esempio vivente e l’avamposto. Siamo dei “razzisti buoni”. Ecco allora che si tace sull’orrenda strage di israeliane e israeliani compiuta dai palestinesi di Hamas, quasi giustificandola, e ci si mette in fila per accusare Israele di genocidio, dietro nientemeno che a Erdogan, il presidente di un paese in cui il negazionismo è legge e dove si va in galera se si cita il genocidio degli armeni che Hitler considerò “un precedente istruttivo”. Siamo di fronte a una catastrofe morale della sinistra. Che le estreme destre, americane, israeliane, ungheresi o italiane, facciano senso cambia qualcosa? No, anzi.

Della situazione in Israele e a Gaza ci scrive Gary Brenner, che, a viva forza, non vuol perdere la speranza che “le spade diventino vomeri”. Luigi Manconi riflette sulla guerra e la sua atrocità e, a volte, necessità anche morale. Tetiana Pechonchyk ci parla di un’associazione che si dedica alla documentazione dei crimini di guerra in Ucraina. Poi, da Londra, il racconto di una “banca del cibo” che cerca di personalizzare il servizio; Antonella Agnoli ci parla della sua idea di biblioteca, quella di una casa per tutti, dai bimbi e ragazzini agli anziani, dai benestanti agli homeless. Poi raccontiamo la storia bella e commovente di Ciro Naturale, ragazzino dei bassi napoletani che un giorno fu avvicinato da Carla Melazzini, maestra di strada... Quindi Fabrizio Tonello ci racconta l’incubo Trump e per continuare il viaggio iniziato nei Sessanta e Settanta pubblichiamo la prima parte di un racconto di Michael Kazin sulla sua militanza in America, dagli Sds ai Weathermen. Poi Alfonso Berardinelli ci parla di Adorno, Matteo Lo Presti di don Milani, Sabina Zenobi e Cosimo Nicolini Coen di come l’antisionismo possa sfociare nell’antisemitismo, Vicky Franzinetti di “vittime e ragione”, Jamila Hassoune della sua “Carovana del libro” in Marocco. Ancora, Bettina Foa ci racconta dell’annuale commemorazione in Spagna dei caduti internazionalisti, fra cui suo zio Renzo Giua. Nelle ultime inauguriamo una nuova rubrica, “lettere dal passato”; “la visita” è alla tomba di George Orwell e infine ricordiamo una cara amica scomparsa, Silvia Sabbatani.