Molti di noi ricorderanno la scena finale dell’ultimo film di Federico Fellini, La voce della luna (un po’ tutte le televisioni, per uno strano scherzo del destino, l’hanno ritrasmessa in occasione della sua morte): Benigni, avanzando con il suo incedere sonnambolico e balordo nel folto di una brughiera rischiarata dalla luna e animata dal rumore degli animali notturni, prima di raggiungere un misterioso pozzo si volgeva verso lo spettatore dicendo: “Eppure io credo che se si facesse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire.” Un’osservazione molto semplice, forse ingenua, che, però, ci segnala umilmente, in questo mondo frastornato, confuso dai messaggi, come una speranza possa sempre maturare nel silenzio.
Chiunque, in effetti, abbia veramente detto qualcosa, ha conosciuto, almeno inizialmente, un proprio deserto. Lo stesso Cristo, prima della predicazione, ha ritenuto necessario ritirarsi, per ricevere, solo al termine di quell’ascesi, da Giovanni, l’eremita, l’uomo del deserto, il verbo nunziale delle acque. Nel silenzio, infatti, non solo ha luogo un vero e proprio combattimento spirituale, il più temerario: quello contro noi stessi, ma cresce l’ascolto, e con l’ascolto la parola che sana, che sorprende, la parola dell’altro. Maestri e allievi si avvicendano così, come ci insegna il buddismo, in un flusso ininterrotto dall’origine alla sorgente. In fondo, notava lo scultore Fabio Melotti, a separarmi da Cristo sono appena venti esistenze.
Per quanto ci si adoperi nel moltiplicare le occasioni di discussione o di dibattito, nell’interrogare “le piazze”, ancor oggi gli incontri più significativi fra gli uomini avvengono fuori dagli spazi deputati: nei corridoi delle sale di congressi, in aereo o in treno, e più facilmente all’estero, quando ciascuno è facilmente libero da ciò che, malgrado tutto, rappresenta o gli viene attribuito. Quante volte amici, coniugi, amanti, si confessano il loro amore dopo essersi resi conto dell’abiezione alla quale un litigio, nato da un confronto su un tema ordinario, li aveva condotti? Persino il mondo che quotidianamente ci appare opaco, ostile al nostro desiderio di pianificazione, assume un senso diverso allorché, spenta la radio, interrotta la conversazione, apriamo lo sportello della nostra macchina per una breve sosta in mezzo alla campagna; oppure ad un improvviso mancare della luce, quando un cielo stellato sembra irrompere dalla finestra.
Non è dunque un caso che per accedere al segreto dell’arte, anche noi, come l’artista, dobbiamo far lo sforzo di tacere: in silenzio ascoltiamo, infatti, un brano musicale o una rappresentazione teatrale, in perfetta solitudine leggiamo un libro o scriviamo.
Che cosa ci impedisce di riservare al resto un uguale trattamento? Che cosa ci impedisce di trattare ogni uomo, ogni cosa, persino l’azione più umile, come quella di lavare le stoviglie o di pulire la casa, alla maniera di un’opera d’arte, così come ha dovuto fare l’artista per ritrarla? I motivi possono essere molti, alcuni comprensibili: l’emarginazione, la malattia, l’ignoranza, una banale stanchezza; altri meno, ma spesso più tenaci e meschini: l’avidità, il benessere, l’impazienza, la superbia; tutti comunque alimentati da una cultura della funzionalità e del sospetto che, pur riconoscendo la sua miseria e il suo disincanto, non ci pensa minimamente ad aprirsi, a mostrare la sua arrendevolezza, se non per consumare, digerire, disprezzare. Una mancanza di fede, perciò di assiduità, di esercizio nel coltivare la libertà, un silenzio, che non essendo soggetto né a sé né agli altri, ci permetterebbe di valutare e di contemplare le nostre azioni, ciò che ci circonda, come fatti del mondo. “L’umanizzazione”, recita un aforisma di una scrittrice brasiliana, Marcia de Sà Cavalcante, “si fa nell’ascolto”, eppure niente è così oltraggiato, aggredito, vilipeso come colui che ascolta, il solo, come diceva Arturo Martini, che con il suo silenzio “rende il linguaggio chiaro”.
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