Mi ritrovai su di un vecchio cargo arrancante sul grande Rio, disteso su sacchi di granaglie, a contemplare, sulla sponda che costeggiavamo, un groviglio di piante sporgenti sull’acque fangose. Infine, con una piccola barca, ci inoltrammo nella foresta attraverso uno di quei fiumiciattoli che scorrono pigri sotto una galleria di alberi piegati ad arco, di liane e di frascame da cui sempre ti aspettavi che dovesse staccarsi un gomitolo di serpente. Raggiungemmo una capanna costruita su palafitte, con brande a castello protette da zanzariere bucherellate, che ci ospitò per una settimana. Eravamo proprio “dentro” la selva, in quello che doveva essere un paradiso di uccelli, di fiori e di farfalle. E invece lo era solo di zanzare: all’imbrunire emergevano dal putridume delle lagune e ti avvolgevano in una nebbia mobile e ronzante.
In questo regno dei pappagalli e delle scimmie non riuscii a vedere nemmeno una coda di platirrina e l’unico pappagallo era quello adottato dal guardiano del rustico lodge, che stazionava sulla ringhiera della scaletta. Il pappagallo, non il guardiano. Quando azzardai una carezza mi buscai una robusta beccata cui reagii, meccanicamente, con una sberla del tutto estranea alla mia educazione animalistica: un alone di piumaggio smeraldino lo circondò per un attimo, prima di adagiarsi morbidamente sulla torba del sottobosco. Da allora lo relegai fra i pappagalli delle barzellette.
Ad una escursione negli acquitrini della selva sacrificai un paio di scarponcini Clark e una pesca alla lenza in uno stagno verdastro mi rivelò che il piraña non è quel mostro bulimico che si vuol far credere: nonostante la sua rispettabile chiostra di denti a sega, è assai più facile che siamo noi a mangiare lui che non lui noi.
Una visita notturna in canoa, sotto un diluvio che continuò a infradiciarci, con lo sgocciolamento degli alberi, anche due ore dopo la fine del temporale, ci fece individuare, nella tenebra, gli occhietti luccicanti dei caimani appiattiti sulle lingue di arenile del fiume. Ma un amico malizioso mi aveva preavvertito che uno stuolo di silenziosi salariati, muniti di piccole torce a pila, sopperiva alla scarsa o nulla presenza di questi abominevoli rettili.
Il mio caso fortunato capitò di notte. Una liquida esigenza mi obbligò a lasciare la mia gabbia di zanzariera per scendere abbasso. Il terrore di un misterioso tramestìo mi inchiodò sul posto facilitandomi la naturale espulsione: sotto un fascio di luce lunare che spaccava l’ombrello della selva un grosso tapiro mi osservò sbalordito e poi si allontanò trotterellando. A fatto compiuto avrei preferito un giaguaro, ma essendo l’unico animale di rango che mi è riuscito di vedere in selva, il ricordo mi si ripropone proustianamente ogni volta che eseguo una certa operazione.
Visitammo un villaggio dove un piccolo gruppo di indios si raccoglieva nella grande casa unifamiliare. Quando ce li presentarono come Jivaros, i bellicosi tagliatori e manipolatori di teste normalmente insediati nell’alto Marañon della Montaña ecuadoriana, rimasi perplesso. Eppure, secondo le mie scarse cognizioni etnologiche, l’uso del gonnellino e della parrucca di paglia per gli uomini ne confermavano l’identità. Cosa ci facevano nel basso bacino amazzonico? Più che selvaggi si rivelarono selvatici per l’insopportabile puzza che emanavano, per le risate sgangherate, per le zaffate d’alcool di “Chicha” che ti soffiavano in viso dalle bocche nere e sdentate. Chiedevano sigarette e accendini con fare sguaiato e aggressivo. Gareggiavano fra loro con le lunghe cerbottane, mancando grossolanamente il facile bersaglio di zucca. All’infuori di qualche ragazzina col pupo al collo, che ancora conservava la grazia di una incredibile maternità infantile, tutti sembravano marci e consunti. La guida mi spiegò in confidenza che sì, erano proprio Jivaros fuori posto, strappati dalla selva ai confini con l’Ecuador e costretti e stabilirsi attorno ai bungalows ...[continua]
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