Ero andata da Angelo Tasca che viveva in un appartamento modesto e buio con la sua compagna, una donna piccola, magra, con zigomi sporgenti e grossi occhiali. Da dietro la scrivania, in una cameretta le cui mura erano coperte di libri e di incartamenti, mi aveva dato un biglietto per un giovane studente fuoruscito che mi avrebbe volentieri dato lezioni d’italiano. Fu così che conobbi Renzo Giua, nella primavera del ’35 a Parigi.
Il ricordo della nostra conoscenza si accompagna a quello del suo riso irrefrenabile. Era un bel ragazzo, con occhi di un grigio acciaio, sopracciglia corte e denti lucenti. Rideva di tutto: delle mie domande, della mia pronuncia, della mia timidezza. Rideva senza pensarci, per puro divertimento, e dopo un po’ ridevo anch’io, senza perché, senza più timidezza. Così disarmati ci facemmo le prime domande, naturalmente sulle ragioni del nostro antifascismo, a quale gruppo appartenessimo, sulle nostre idee e progetti per il futuro.
Durante le lezioni, Renzo mi raccontava di Torino, la sua città, di "Giustizia e Libertà”, della vita dei fuorusciti italiani a Parigi, prorompendo ogni tanto in una delle sue matte risate, che mettevano in forse le cose più serie. Poi era il mio turno. Il mio sistema marxista cominciava in quel tempo a ricevere le prime scosse. Tanto più restavo attaccata alle ragioni morali e alle regole pratiche del mio impegno politico. Parlavo a Renzo delle nostre battaglie nella Gioventù socialista, prima in Germania e poi a Parigi, per un’azione comune con i comunisti contro il fascismo. Gli parlavo delle nostre divisioni ideologiche, dei nostri sforzi di rinnovamento; tuttavia mai facevo alcun nome perché ciò sarebbe stato contrario alla pratica dell’illegalità. Ma Renzo mi domandò a bruciapelo se proprio credevo a tutta quella commedia illegale che i tedeschi antifascisti recitavano a Parigi, dato che probabilmente ben pochi di loro sarebbero mai tornati in Germania.
Più avanti mi parlò di una bellissima donna che stava a Torino e che era, diceva lui, la "ninfa Egeria” dell’antifascismo torinese. L’espressione classicheggiante in mezzo al linguaggio semplice mi sembrava buffa, e ancor più buffa l’espressione trasognata di Renzo in mezzo al discorso politico. "Si chiama Paola” aggiunse con gravità. Quella mescolanza di discorso personale e politico non esisteva nei nostri circoli tedeschi che avevano qualcosa di piuttosto ascetico. Per la prima volta cominciai a sorridere di quel capogruppo dei giovani comunisti tedeschi a Parigi, che vedevo spesso e che ogni volta cominciava il suo discorso con le parole: "Compagni, prima parliamo di sachlich e poi persönlich, prima obiettivamente e poi soggettivamente”.
Tuttavia, col passar del tempo l’atteggiamento di Renzo cominciò a sembrarmi poco serio e cercai di metterlo alla prova. Gli chiedevo alcune informazioni sulle organizzazioni degli antifascisti italiani. Rispondeva buttando fuori tutto quel che sapeva. Io cambiavo tono e gli dicevo che trovavo irresponsabile il suo modo di fare: in fondo, non mi conosceva, potevo essere una spia o perlomeno una chiacchierona e mettere in pericolo le persone di cui egli mi aveva parlato. Mi guardava stupefatto, allegro. Mi chiedeva se lo consideravo davvero così stupido da non saper distinguere tra una spia e una persona amica, tra una chiacchierona e una persona seria. Non diceva "una compagna”. Notavo che non adoperava volentieri il gergo dell’antifascismo marxista che era invece il mio. La personalità di Renzo Giua mi colpì e diventò importante per me, proprio perché era così diversa da quella della gente che conoscevo. Con il suo riso Renzo mi costrinse ad accorgermi di certi aspetti filistei del nostro atteggiamento morale: il falso attivismo, la mancanza di coraggio da una parte e la propaganda troppo ottimistica dall’altra, la continuazione di assurde polemiche tra socialisti e comunisti e insieme la cura che mettevamo ad evitare revisioni più profonde.
Un giorno mi raccontò di un professore di scuola media in Italia che durante una cerimonia fascista si era alzato dopo il discorso del preside e aveva pubblicamente preso posizione contro la guerra d’Abissinia, condannando il regime fascista. Naturalmente aveva perso il posto ed era stato inviato al confino. Io mi ribellavo: "Bella bravura”, dicevo, "così avete un antifascista di meno; ha fatto il suo bel discorso per essere in regola con la sua coscienza ed ora è scoperto, mentre invece, se avesse rispettato le regole del lavoro illegale, avrebbe potuto continuare a essere utile al movimento”. Renzo rideva. "Essere utile al movimento”, mi imitava. "Com’è importante il vostro linguaggio! Vale più uno che si alza e parla che tutta la vostra sapiente rete di illegali che non aprono bocca ma si mormorano le notizie uno nell’orecchio dell’altro. Alla lunga, a forza di stare zitti, diventeranno dei bravi nazisti anche loro”.
Io protestavo. Quest’italiano, leggero e anarchico, era diverso da noi, non poteva capire. La nostra tecnica non era improvvisata. Era stata collaudata prima al tempo delle leggi antisocialiste di Bismarck, poi nella Russia zarista, poi nelle persecuzioni antispartachiste del primo dopoguerra in Germania, e aveva dato i suoi frutti; grazie ad essa la classe operaia era rimasta compatta e ostile nei tempi della reazione, senza subire perdite gravi; lasciarsi andare oggi in Germania ad atti singoli di rivolta significava cadere nell’illusione individualistica, romantica e piccolo-borghese: era quello che i nazisti volevano, significava non aver fiducia nella classe operaia...
Renzo perdeva la pazienza: "All’anima della vostra classe operaia! Mi pare che sia venuto il momento di perdere un po’ di fiducia... Dodici milioni di socialisti e comunisti organizzati, il più potente movimento operaio d’Europa... e poi viene Hitler e tutti stanno fermi, nessuno si muove! Questa è la vostra disciplina? Che cosa vale?”. Qui toccava il mio punto più dolente. Oh, quei giorni e quelle notti terribili della Machtergreifung, dell’incendio del Reichstag, delle leggi dei pieni poteri! Terribili non tanto per quel che succedeva quanto per quel che non succedeva: l’attesa prima solenne, poi pacata, poi sgomenta dell’ordine, che doveva infine venire, di reagire, di metterci in marcia noi. Quella notte allucinante della grossa fiaccolata nazista davanti al balcone del governo con Hitler e il suo stato maggiore piantati lì. E noi, mio fratello e io, con le nostre biciclette, tra un gruppo di compagni berlinesi, ammutoliti e stretti insieme dalla gravità dell’ora, davanti alle finestre illuminate del Karl-Liebknecht-Haus, la Centrale del partito comunista, ad aspettare il segnale della rivoluzione. E niente veniva. La grande, generosa classe operaia tedesca che per anni aveva subìto, conscia della propria responsabilità, la provocazione della marmaglia fascista, piegava ora il capo come un povero Cristo in croce. Lentamente ci eravamo dispersi, dopo aver gettato un ultimo sguardo alle finestre illuminate, là in alto, di fronte a noi, in un silenzio e in un buio mai più dimenticati... Poi, spezzata l’attesa, erano cominciati i primi arresti, le notiziole di resistenze antifasciste qua e là, le prime esercitazioni nel lavoro illegale, che erano continuate poi all’estero per chi aveva dovuto fuggire.
E se Renzo avesse avuto ragione? Se l’adattarsi all’ambiente nazista, prima regola dell’"azione interna” in Germania, diventava un paravento per non fare più niente nell’avvilimento della Gleichschaltung? Forse il nostro metodo illegale andava bene per i tempi di breve oppressione reazionaria che poteva essere anche violenta ma non mirava a conquistare gli animi. Invece, di fronte al nazismo con la sua aggressione totale, forse bisognava tornare al romanticismo individuale, al coraggio del singolo, forse bisognava dare qua e là l’esempio dell’uomo che dice no, come avevano fatto von Ossietzky, Mühsam e pochi altri. È vero che costoro in Germania non finivano al confino, bensì torturati e uccisi in un campo di concentramento. Ma davano un esempio luminoso a tanti altri. Del resto, anche nella rete dei cospiratori, tessuta e ritessuta con tanti sacrifici, l’uno o l’altro spariva perché scoperto, e ciò accadeva in quegli anni abbastanza spesso, sebbene quasi nessuno ne parlasse. Tanto lontano mi portavano le domande scanzonate di Renzo, forse senza che lui se ne accorgesse. Perché niente gli era più estraneo dell’intenzione di convincere qualcuno. Era il suo modo di essere che convinceva. Un giorno mi invitò con altri amici nella sua stanza, non lontana dal Pantheon. C’erano sopra il suo letto alcune fotografie colorate di donne, ritagliate da qualche settimanale da pochi soldi, come ne hanno sui muri delle loro camere certi operai o sportivi. Come era possibile che Renzo, uomo di cultura, non ne sentisse il cattivo gusto, la volgarità? Anche nell’abbigliamento, del resto, aveva sempre qualcosa di stonato, una cravatta vistosa, una giacca con spalle troppo larghe. Come se anche esternamente volesse esprimere la sua allegra presa in giro di ogni rispettabilità, compresa la propria.
Quando Renzo morì in Spagna, io ero già in Italia. Non conosco i particolari della sua morte e anche quando, molti anni dopo, avrei potuto chiederli, non l’ho più fatto. Ma nella sua morte i tratti della sua persona mi si sono fusi in un’immagine di grande bellezza.
Ognuno di noi è diventato antifascista per ragioni diverse, ma quasi tutti avevamo in comune il sapere che cosa lasciavamo dietro di noi, il sentire qualche volta il peso della decisione presa e insieme l’impegno morale austero che ci ordinava di continuare sulla via intrapresa. Renzo invece era antifascista non per ragionamento né per esigenza di purezza morale. Lo era per vitalità, per non poter essere diversamente, per una sorta di gioco nobile.
Tutto in lui è stato gratuito: la sua vita, la sua azione, la sua morte. Aveva combattuto per un po’ in Spagna contro falangisti e fascisti con l’allegria di un eroe ariostesco; e certamente aveva continuato lì a fare le più irriverenti risate sugli antifascisti importanti che restavano a Parigi, così come prima, a Parigi, aveva preso in giro quegli antifascisti solenni che dal carcere scrivevano lettere vibranti alle mogli, con preghiera di numerarle, per la posterità.
Poi si era innalzato nel cielo, cavalcando una nuvola di un rosa un po’ troppo vistoso, ridendo ormai per sempre, il cuore dilaniato da una bomba falangista.
Ursula Hirschmann
(tratto da "Tempo Presente”, marzo/aprile 1963)
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