Questa volta le elezioni per il Parlamento Europeo non sono state soltanto, come le altre volte in passato, un grande test elettorale per misurare i consensi nei confronti dei partiti nazionali. Certo non si è parlato solo d’Europa, ma si è parlato anche d’Europa. Ci sono gli indifferenti (che non vanno a votare), ci sono i delusi e ci sono gli oppositori. L’opinione pubblica ha incominciato ad avvertire che il processo di integrazione non è irreversibile, che l’Unione Europea rischia di sfaldarsi, che i fantasmi del passato non sono stati sconfitti definitivamente. Il "merito” di questa svolta è di quelle formazioni politiche che, presenti in forme diverse in tutti i paesi, si dichiarano apertamente contrarie a proseguire sulla strada dell’integrazione e anzi, possibilmente, vogliono tornare indietro. L’onda di ostilità contro gli "eurocrati di Bruxelles” è montata e molti movimenti hanno fatto e fanno a gara per cavalcarla. In Gran Bretagna e in Francia hanno raggiunto la maggioranza relativa e in molti altri paesi hanno conquistato fette consistenti dell’elettorato.
La Germania fa (parzialmente) eccezione. La partecipazione al voto è salita rispetto alle ultime tre elezioni europee, dal 1999 in poi, sfiorando il 48% (in controtendenza rispetto agli altri paesi dove l’astensionismo è aumentato o rimasto stabile) e le formazioni decisamente anti-europee, di tutti i colori, ma soprattutto di destra, non hanno totalizzato più del 10% dei voti.
I partiti al governo nella "grande coalizione” hanno insieme raggiunto il 62% dei voti espressi, se ad essi si aggiungono i partiti sicuramente "europeisti” (verdi e liberali, un altro 11%) si può dire che tre tedeschi su quattro hanno espresso un voto pro-Europa. A sinistra dei socialdemocratici (die Linke) la posizione di Tsipras "per un’altra Europa” ha raccolto parecchi consensi, ma vi sono anche frange decisamente nazionaliste e ostili all’Ue sia nella Linke sia in vari gruppetti marxisti-leninisti eredi dei movimenti del ’68. L’estrema destra si divide tra una frazione decisamente nazionalista e anti-europea (di fatto neo-nazista) e la nuova formazione Alternative für Deutschland che alle elezioni dell’ultimo settembre non aveva superato la soglia del 5% e che ora ha raggiunto il 7%. Insomma, il partito anti-Ue, ancorché rafforzato e avvertito come una minaccia soprattutto dai cristiano-democratici, che ne temono la concorrenza sull’elettorato conservatore, non riesce a decollare, come invece è successo in Francia e nel Regno Unito, ma anche in Italia.
La ragione potrebbe essere semplicemente perché la Germania è stata finora il paese che ha tratto maggiore vantaggio dall’appartenenza all’Ue e alla moneta unica e quindi la grande maggioranza dei tedeschi non intende cambiare rotta. Vero, ma le cose non sono così semplici. La campagna elettorale è stata percorsa da sentimenti di inquietudine, dal timore che la Germania non si salvi se l’Europa va a picco, soprattutto se l’intesa con Parigi non reggerà alle tensioni che serpeggiano in quello e in altri paesi. In alcune élite intellettuali, ma anche in alcuni settori della classe politica ha fatto breccia l’idea che alla Germania, come paese più popoloso, più ricco e più "virtuoso”, spetti il compito di promuovere una politica più dinamica, più solidale, che rafforzi l’Europa. Da noi si conosce la posizione di un filosofo come Habermas, ma la sua non è l’unica voce critica dell’europeismo di facciata del governo Merkel. E, tuttavia, questa consapevolezza si scontra al timore diffuso di dover pagare i debiti fatti dai paesi meno "virtuosi” dell’Europa meridionale. La parola d’ordine è che l’Europa non deve diventare una "Tranferunion”, dove chi ha i conti in ordine deve pagare per coloro che vivono al di sopra delle proprie possibilità, evadono le tasse e sono inquinati dalla corruzione. Anche se si addensano nella destra dello spettro politico, gli euroscettici sono trasversalmente presenti in tutti i partiti e nell’opinione pubblica. Coloro che sostengono che si debba fare un passo indietro, ad esempio uscire dall’euro, sono ancora poch ...[continua]
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