Lei s’è impegnata tutta la vita a portare avanti gli insegnamenti di Maria Montessori. Ce ne può parlare?
La Montessori era una scienziata e questa formazione che aveva ricevuto l’ha aiutata molto nella sua conoscenza dei bambini. Anche l’incontro con i bambini avviene perché lei, durante i suoi studi universitari con altri tre psichiatri, Sante De Sanctis, Clodomiro Bonfigli e Giuseppe Montesano, andava a studiare al Santa Maria della Pietà, il manicomio di Roma, sopra a Monte Mario. Lì vide questi bambini, buttati nella polvere, che non avevano niente di niente, litigavano per una briciola di pane caduta per terra e non perché avessero fame, ma perché non avevano niente per le mani, niente da fare. Allora lei li prese e se li portò in un posto nella zona di San Lorenzo, dove poi Bollea, che era della generazione successiva, allievo di Montesano, ha instaurato, in via dei Sabelli, la Neuropsichiatria infantile. Cominciò lì. Lei che cosa aveva pensato subito? Che quei bambini non potevano imparare nulla senza avere per le mani degli oggetti. Cominciò così a fare le lettere mobili. Questa era stata un’intuizione geniale nientemeno che di Quintiliano, ma questo Montessori non lo sapeva. Quintiliano era un retore romano che non si occupava di ragazzini, ma aveva avuto l’idea che questi avrebbero imparato meglio se avessero potuto comporre le parole e così aveva fatto tanti tassellini, uno per lettera. Anche lei fece lettere mobili, lettere da toccare, per memorizzare il segno. Insomma, lavorandoci senza sosta per due anni, Montessori portò all’esame di quinta elementare ragazzini considerati deficienti, oligofrenici, come li chiamavano allora. Ecco, questa cosa ebbe una rinomanza a non finire.
Ma se questi bambini, figli di nessuno, in condizioni disgraziate, potevano farcela, voleva dire che c’era un grande "spreco di infanzia”, come lei lo chiamò. Lei poi aveva fatto ricerche antropologiche e metteva in correlazione le condizioni di vita, la povertà, le malattie, con lo stato dell’intelligenza e delle capacità dei bambini. Aveva straordinarie intuizioni. D’altra parte siamo alla fine dell’Ottocento, all’epoca in cui il positivismo si diffonde in Europa, che in un paese come il nostro, però, dominato dall’idealismo, incontrava non poche difficoltà. Una donna positivista poi era vista molto male. Una donna, per di più, che, non essendo neanche una maestra, s’impicciava di educazione. Erano gli inizi anche del movimento femminista: le donne cominciavano a coalizzarsi per il diritto di voto, contro la guerra, contro il lavoro dei bambini, contro condizioni di lavoro, anche dei maschi, che erano terribili. Non si può dire che la Montessori fosse una militante come un’altra grande femminista dell’epoca, Anna Kuliscioff, che, vedi caso, era medico anche lei, ma certamente partecipava, tanto che intervenne a grandi congressi femministi, a Parigi nel 1898 e a Londra nel ’99, e qui colse l’occasione per vedere come si curavano i bambini. A Parigi scoprì gli studi di Edouard Séguin, che qualche decennio prima si era occupato a fondo dei cosiddetti idioti e aveva lavorato moltissimo sul recupero sensoriale. E lei su questo presentò poi relazioni ai congressi di pedagogia dell’epoca dove pare seducesse tutti. Era una bellissima donna -e lo fu ancora a ottant’anni- con un’abilità, nel parlare, straordinaria. Io frequentai il suo ultimo corso nazionale a Roma, nell’inverno ‘50-51. Poi ne fece ancora un altro a Innsbruck e nel ‘52 morì. Quello che ci affascinava era come sapesse dire ogni volta gli argomenti in modo diverso.
La mia maestra Adele Costa Gnocchi, che la seguiva da anni, diceva: "Lei è così, è la sua capacità, perché il bambino l’ha visto in tanti modi diversi, e sa presentarlo, e poi dice cose vere, esempi toccati con mano, e quindi...”.
Per tornare agli inizi, successe che nel 1906, quando a Roma cominciò la costruzione di quartieri popolari per alloggiare gente poverissima che affluiva dalle campagne, dall’Agro Ponti ...[continua]
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