Da tempo frequenti l’Ucraina. Prima di venire all’attualità, vorremmo chiederti intanto come hai visto cambiare il paese in questi anni...
Premetto che ho frequentato prevalentemente l’area della capitale. Ebbene, soprattutto dopo il 2014 a me è parso di assistere a una generale rinascita dovuta al fatto che il paese si immaginava sulla via di una europeizzazione, di una occidentalizzazione. Credo che proprio qui stia uno dei punti. Kiev aveva assunto il tipico profilo della grande città che attira i giovani dalle campagne e dalle aree urbane in difficoltà; la capitale era dunque in piena espansione e si stava rifacendo il look, anche da un punto di vista turistico, con la presenza di tante iniziative culturali e artistiche, a partire dal salone del libro che è anche un salone dell’arte. Insomma, c’era un fermento culturale, intellettuale e anche economico straordinario.
Le campagne continuavano a essere un problema sia sociale che economico, di qui la riforma voluta soprattutto per aprire agli investitori stranieri. Si parla sempre dell’Ucraina come granaio d’Europa, la realtà è che questo è un settore arretrato e con pochi investimenti: l’Ucraina potrebbe produrre di più e meglio.
Questo per sottolineare come questa guerra sia arrivata proprio in un momento cruciale (anche se in realtà dovremmo parlare del prolungamento di una guerra che c’era già) mettendo a repentaglio delle traiettorie, dei progetti di sviluppo, come pure delle strategie di vita individuali. Se penso ai miei amici ucraini, mi ha colpito tantissimo il fatto che appena hanno potuto, siano rientrati a Kiev per ricominciare. Molti non sono proprio andati via. Altri ancora hanno portato famiglie e bambini a Ovest e poi sono tornati.
La cosa straordinaria è che, nonostante tutto, il mondo della cultura non si è fermato. Per dire, stavano lavorando alla traduzione del mio libro sui dissidenti ucraini; ebbene, dopo due settimane dall’inizio della guerra, mi hanno scritto: “Abbiamo i fondi, adesso lo mandiamo alla traduttrice”. E io: “Ma come? Non sappiamo neanche cosa ne sarà dell’Ucraina domani!?”. Invece loro sono andati dritti. Questo è stato il loro modo di reagire, che è forse ciò che ci ha stupito di più.
Gli ucraini si sono convinti di poter almeno “non perdere” questa guerra e per raggiungere questo obiettivo sono pronti a tutto. Il fatto che Putin sia stato così esplicito, così spregiudicato, che abbia voluto negare addirittura l’esistenza di una nazione ha costretto gli ucraini a vedere la loro resistenza come una lotta per la propria sopravvivenza. Resistere non vuol dire soltanto arruolarsi, ma anche continuare a fare cultura, a vivere anche se c’è la guerra...
Questa resistenza sta consolidando un’idea di nazione forse nuova...
È un tema su cui sto ragionando anche nell’ambito delle mie ricerche. Ultimamente sono andato a vedermi alcuni discorsi di leader politici dei primissimi anni Novanta. Il primo presidente dell’Ucraina indipendente, Kravcuk, lo diceva esplicitamente: “Noi siamo troppo differenti per pensare di fare una nazione etnica come fanno gli altri; dovremo provare a fare una cosa diversa...”, cioè una nazione che io ho definito civica, politica. Lui non usava queste parole, il linguaggio era ancora molto marxista, però l’idea era quella di costruire un’identità a partire da qualcosa di diverso. Si tratta di riflessioni ormai suffragate anche da ricerche antropologiche, sociologiche. Io cito spesso i lavori di Tatiana Zhurzhenko, antropologa sociale; lei ha condotto molte indagini sulle aree di confine dell’Ucraina per capire come cambiava il senso di appartenenza, di auto identificazione. Ecco, un dato interessante è che, se inizialmente per l’appunto gli ucraini si sentivano svantaggiati rispetto ai russi, a partire dalle varie rivoluzioni che si sono succedute, dopo i primi anni Duemila ha iniziato a crearsi un nuovo senso di appartenenza che è legato proprio a questa lotta per la democrazia e che trova un suo corrispondente anche nell’uso pubblico della storia che fanno le istituzioni. Nell’immaginario collettivo gli ucraini si autorappresentano come quelli che vanno in piazza, che protestano, che non fanno passare i dittatori...
Il tutto, se volete, fa anche parte del p ...[continua]
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