Lì assaggiai la vittoria
israele-palestina
Una Città n° 294 / 2023 agosto
Intervista a Issa Amro
Realizzata da Barbara Bertoncin
LI' ASSAGGIAI LA VITTORIA
Il tragitto che ha portato un giovane palestinese di Hebron, nato e vissuto in regime di occupazione dove, se palestinese, sei colpevole fino a prova contraria, alla scelta della non violenza come lotta per la difesa dei diritti dei palestinesi; i risultati ottenuti e la risonanza oltre i confini di Israele; la prima battaglia, quella delle macchine fotografiche; l’incontro con ebrei israeliani e della diaspora americana e la fine dell’odio. Intervista a Issa Amro.
Issa Amro è un attivista palestinese di Hebron. È il fondatore del movimento nonviolento Youth Against Settlement.
Puoi raccontarci la tua storia?
Sono nato nel 1980 nella città vecchia di Hebron, dove poi ho sempre vissuto. Ho studiato a Hebron, in una scuola vicina alla moschea di Abramo. Mio padre è cresciuto in orfanotrofio, suo padre era stato ucciso dall’Occupazione perché trafficava beni tra la Cisgiordania e Gaza. Soprattutto per questo mio padre voleva che io stessi alla larga dalla politica, come aveva sempre fatto lui; gli bastava che fossi un bravo studente e giocassi a pallone con gli amici. Ecco, si può dire che giocare a calcio e studiare fossero queste le mie passioni da piccolo. Questa era la mia vita.
Sono cresciuto in mezzo ai coloni, anche se gli insediamenti che già c’erano negli anni Ottanta si trovavano ai margini della città e non erano tanti; anche i soldati erano pochi, se ne vedeva soltanto qualcuno qua e là. La città, per me, aveva un’identità pienamente palestinese.
A casa mia non si parlava mai dell’Occupazione. L’evento che mi ha indirizzato verso la politica è stata la strage della moschea di Abramo del 1994, dove furono uccisi oltre sedici palestinesi e più di sessanta rimasero feriti. In quella strage persi un amico, un ragazzo di un anno più giovane di me con cui giocavo a calcio e il cui fratello era mio compagno di classe. L’evento mi lasciò sconvolto e scatenò il mio odio per gli ebrei. Subito dopo quel fatto non sono andato a scuola per tre mesi. Avevo paura dei coloni e di chiunque indossasse la kippah.
Il mio sogno era laurearmi in ingegneria, prendere un dottorato e diventare docente universitario. Questa era la vita che volevamo sia io sia la mia famiglia, così nel 1998 mi sono iscritto all’Università palestinese di Hebron. Studiavo giorno e notte ma, giunto all’ultimo anno, la mia Università venne chiusa a causa dell’Occupazione. La cosa mi fece infuriare. Ricordo che tornai a casa distrutto, pronto a scatenare la mia vendetta contro Israele. Eravamo nel mezzo della Seconda intifada, l’esercito ormai era ovunque e faceva raid in ogni quartiere. All’epoca volevo proprio fare la rivoluzione. Per fortuna, i primi autori che lessi furono Gandhi, Martin Luther King e altri esponenti del movimento pacifista, ma il problema era che, con questi, faticavo a convincere i miei compagni alla non-violenza, perché non erano autori musulmani. Studiando ancora scoprii il pensiero di Bacha Khan, un attivista non violento seguace di Gandhi e -soprattutto- musulmano. Dai suoi scritti e dai suoi insegnamenti di imam ho appreso molto su come usare l’Islam per la non violenza. Forte di questi studi, tornai dai miei compagni per convincerli a fare qualcosa per riaprire l’Università e opporci all’esercito israeliano usando la non violenza. Dopo alcuni mesi riuscimmo a occupare il campus, cosa che attirò l’attenzione dei media e ci fece guadagnare l’interesse di gruppi di solidarietà. Lì assaggiai la vittoria. L’esercito alla fine si arrese e consentì la riapertura del campus, ma i professori si rifiutavano di insegnare perché avevano paura. Continuammo la nostra campagna convincendo gli studenti degli ultimi anni a insegnare alle matricole. Fu poi lo stesso esercito israeliano ad assicurarsi che i professori tornassero al lavoro, ma aggiungendo: “Non pensate però che sia merito di Issa Amro o dei suoi amici!”. A me andava bene lo stesso; il mio obiettivo, all’epoca, non era la lotta contro l’Occupazione, ma una cosa personale, dettata dall’egoismo: potermi laureare. E si può dire che ottenni due titoli da quell’università: il primo in ingegneria, il secondo come attivista.
Come hai proseguito?
Nel 2003 cominciai a formare a Hebron un movimento internazionale di solidarietà con la causa palestinese. Nel 2004 mi recai a Masafer Yatta, un villaggio nel sud-est, dove volevamo aiutare alcune famiglie che avevano ricevuto il permesso della Corte suprema di reinsediarsi, ma che subivano continuamente le aggressioni dei coloni. Poi iniziai un progetto a Tal-Rumeida, “figli di Abramo”, che comprendeva palestinesi, israeliani e altri da tutto il mondo impegnati a monitorare i rapporti tra israeliani e palestinesi, a documentare ciò che stava accadendo e a scriverne. Nel 2006 abbiamo creato il “camera project” per distribuire macchine fotografiche alle famiglie; quella delle macchine fotografiche è stata una mia idea. In seguito “Bt’salem” l’ha apprezzata e fatta propria. Così nel 2007 ho cominciato a lavorare con loro come coordinatore del progetto.
Puoi spiegarci in cosa consisteva il “Camera project”?
Nel 2006 era in corso un’impennata della violenza da parte di Israele. Noi, attivisti palestinesi, israeliani e di tutto il mondo andavamo in giro con le nostre macchine fotografiche, ma non riuscivamo mai a cogliere le violenze sul fatto. Se i coloni attaccavano un insediamento palestinese, quando arrivavamo noi era già tutto finito. Di qui la mia idea di lasciare i nostri apparecchi fotografici alle famiglie. I miei colleghi inizialmente erano contrari: “Le fotocamere ci servono…”, così cominciammo a raccogliere donazioni con il primo obiettivo di distribuire sei macchine fotografiche capaci anche di registrare video. Ricordo che però, inizialmente, le famiglie le rifiutavano.
Perché?
Dicevano che era inutile e pericoloso. Io rispondevo che, sì, sicuramente era pericoloso, ma di certo non inutile! Così addestrammo donne e bambini a usare gli apparecchi, perché erano loro che stavano sempre a casa. Per proteggerli li avevo assicurati che non appena fosse successo qualcosa mi avrebbero dovuto chiamare e sarei arrivato subito. Una delle prime volte mi chiamò una famiglia perché i coloni li attaccavano continuamente, loro li stavano riprendendo e volevano che andassi subito. Andai e fui arrestato.
Un’altra volta, nel 2007, a Tel-Rumeida avevamo convinto una famiglia a utilizzare una foto-videocamera, e qualche mese dopo mi avevano consegnato il materiale. Io gli avevo chiesto: “Avete registrato qualcosa di speciale?” e loro: “No, solo cose normali”. Alle due di notte un operatore di “Bt’salem” mi chiama: “Issa! Nella registrazione c’è qualcosa di molto importante, domattina vai da quella famiglia e chiedi il permesso di pubblicarlo”. Mi disse che avevano registrato una colona israeliana che insultava la donna palestinese dandole della “sharmuta”, che significa “puttana”. Così andai dalla signora di quella famiglia e chiesi: “Beh, avete ripreso questa cosa e non mi avete detto niente?”, e lei: “Non te l’abbiamo detto perché non è niente di speciale, succede tutti i giorni”. Pubblicammo il video e girò parecchio, divenne virale, al punto che la Knesset dovette formare un comitato speciale per investigare sull’episodio.
In seguito cominciammo il progetto di distribuzione macchine fotografiche insieme a “Bt’salem” e io ne divenni il coordinatore. Giravo tutta la Cisgiordania, formavo le famiglie su come usare gli apparecchi, come nasconderli, come documentare. Le macchine fotografiche potevano essere usate per autodifesa, perché legalmente i palestinesi sono sottoposti a legge militare e quindi sono considerati colpevoli fino a prova contraria, così i video servivano in primo luogo a proteggerli. Riuscimmo a distribuire molti apparecchi. Il nostro sogno era di distribuire ventimila macchine fotografiche, eravamo convinti che così avremmo messo fine all’occupazione.
Siete riusciti a distribuirne tante?
Sognavamo di farlo, ma ora non è più necessario, perché si è venuta a creare la cultura del riprendere e ciascuno lo fa con il proprio smartphone. Ora continuo a girare ma non più per distribuire fotocamere, bensì per insegnare cosa si può fare, cosa non si può fare, come proteggere i documenti…
Dopo il “Camera project” come hai proseguito?
Contemporaneamente ho messo in piedi un gruppo chiamato “Youth Against Settlements”, la cui idea principale era reclutare i giovani alla lotta non-violenta. Ho cominciato a girare le università, le scuole, a fare lezioni, a parlare di campagne organizzate, attività concrete, tutte cose con cui avremmo potuto rendere l’occupazione insostenibile per Israele. Poi abbiamo organizzato una campagna internazionale chiamata “Open streets campaign”, con cui siamo stati tante volte in giro per il mondo, anche in Italia. Ho lasciato “Bt’salem” nel 2011 per avere più libertà d’azione. Da allora organizzo molte attività non-violente. Oggi lavoro con “Breaking the silence”, con “Yesh Din”, con “Bt’salem”, con “Peace Now”, con “Rabbis for Human Rights”, con cui organizziamo molte azioni differenti, anche illegali. Abbiamo creato un gruppo femminile chiamato “Karamati”, “La mia dignità”, per dare alle donne palestinesi uno spazio nei pressi della moschea di Abramo dove svolgere attività sociali, politiche, imprenditoriali. I bambini ci vanno a giocare, ci teniamo molte lezioni sulla non-violenza e proiezioni di film.
Hai partecipato anche a dei film…
Sì, il più famoso è “H2-The Occupation Lab”, che parla di Hebron ed è basato su “How to make a revolution”, un’opera teatrale che avevo scritto con Einat Weizman, un’artista israeliana. Il film parla della mia vita sotto l’Occupazione, di come funzionano i tribunali militari e della corruzione dell’Autorità palestinese, di come ero stato arrestato dall’Autorità per aver criticato il regime di Abu Mazen e il modo in cui questa perseguita cittadini e giornalisti…
Dunque sei stato arrestato da entrambi…
Sì, l’Autorità palestinese mi ha arrestato due-tre volte. È un potere corrotto, una dittatura che vìola di continuo i diritti umani. Io ne parlo e a loro non sta bene. Un giornalista palestinese era stato arrestato per aver criticato Abu Mazen, lo hanno incarcerato e io, per aver organizzato una campagna in sua difesa, sono stato a mia volta arrestato e processato “per aver criticato pubblicamente l’Autorità”. Sono queste le accuse tipiche. Ah, ma la maggioranza dei palestinesi è contro l’Autorità, conoscono bene la loro corruzione.
Qual è la situazione oggi a Hebron?
Come dicevo, i palestinesi sono sotto l’egida della legge militare, che significa che essere colpevoli fino a prova contraria. Non mi è concesso neppure usare la resistenza non-violenta. I coloni, invece, sono sottoposti al diritto civile israeliano, la legge “normale”; ciò significa che anche se sono stato vittima di attacchi da parte dei coloni sono io a essere arrestato. C’è un fatto che si è verificato nel maggio scorso di cui hanno parlato tutti i media israeliani. Nel 2013, Baruch Marzel, il fondatore del partito di estrema destra “Otzma Yehudit”, mi aveva aggredito e io l’avevo denunciato. Nel 2023 Marzel ha patteggiato con il tribunale la pena di una settimana di prigione (pena sospesa), senza che io venissi coinvolto, di fatto togliendomi la possibilità di affrontarlo in tribunale. Questo dopo dieci anni di processo. Capisci cosa intendo? Anche l’ex ambasciatore statunitense in Israele, Daniel B. Shapiro, nel 2016 aveva denunciato ufficialmente l’esistenza di questo doppio standard. Questo vale in particolare a Hebron, dove io vivo circondato da un recinto. Sì, tra me e i coloni c’è una recinzione.
Io organizzo visite guidate con ebrei americani della diaspora, gente di ogni tipo, di destra e di sinistra, e li invito a casa mia. Lo scorso febbraio, mentre mi trovavo con Lawrence Wright, uno scrittore americano, sono stato aggredito dai soldati.
Anche di questo episodio c’è un video, ripreso da un fotografo, e anche questo ha fatto il giro del mondo, ne hanno parlato i principali media israeliani, ma anche quelli americani. Il primo novembre scorso sono stato arrestato per aver ripreso un soldato israeliano che picchiava un ospite palestinese-israeliano, ma soprattutto perché nel video si vede un altro soldato che dice che erano “ordini di Itamar Ben Gvir”, il ministro per la sicurezza nazionale, un estremista, anche lui del partito “Otzma Yehudit”, uno dei promotori della riforma per sovvertire la Corte suprema israeliana, contro cui tanti israeliani sono scesi in strada lo scorso marzo. Anche questa volta sono stato arrestato e il video è circolato molto. Parlavano tutti di come un palestinese fosse riuscito a riprendere dei soldati che violavano il codice di condotta dell’esercito. Dopo quest’altro episodio sono stato maltrattato, hanno razziato casa mia, quella dei miei genitori, mi hanno confiscato tutti i dispositivi elettronici… Questa è la situazione. Insomma, io e i miei amici israeliani e palestinesi siamo una minaccia al progetto dell’Occupazione, ma siccome non riescono a sbarazzarsi di noi, devono prendersela con le nostre case, razziarle, arrestarci e intimidirci di continuo.
Ormai sono sotto minacce di morte. Il ministro della sicurezza nazionale ha dichiarato: “Issa Amro è un anarchico”, e, riferito ai video delle aggressioni che ho subìto, “si è meritato ciò che gli è capitato” ed “è giusto che i soldati agiscano così con lui”. Direi che mi temono molto.
Di cosa vivono le persone a Hebron?
A Hebron ci sono due tipi di palestinesi. Quelli che vivono nella zona H1 se la cavano molto bene, producono scarpe, materassi, sedie, materiali plastici, lavorano nel settore produttivo cittadino. Nella zona H2, invece, il tasso di disoccupazione è oltre il 70%, quello di povertà supera l’80%, per cui i residenti dipendono dagli aiuti. Una cosa che proviamo a fare sono i progetti per le famiglie, per aiutarle ad avere un introito, magari preparando pasti, ospitando persone che vengono da altri paesi, vendendo prodotti online.
Quando hai deciso di darti all’attivismo come ha reagito la tua famiglia?
All’inizio nascondevo loro ciò che facevo, al punto che arrivai a bloccare mia madre su Facebook. Quando lo dissi ai miei, feci loro capire che potevo scegliere tra resistenza armata e non-violenza, e chiesi: cosa preferite? Mio padre mi consigliò di seguire la non-violenza e a me stava bene.
Insomma, ho sfidato la mia famiglia, la mia società e sfido tuttora chiunque a usare l’arma della non-violenza, ma sta funzionando.
Di solito, quando vado a parlare ad altri palestinesi, porto loro gli esempi delle mie vittorie, del centro comunitario per le donne, del fatto che sono riuscito a fondare un asilo o di come sono riuscito a proteggere il mio appezzamento di terra e molte altre case solo facendo ricorso alla resistenza non-violenta. Ritengo che stiamo ottenendo buoni risultati.
Certo, giochiamo in difesa, difendiamo i nostri diritti, la nostra proprietà, la nostra identità, la nostra città.
Come reagiscono le persone quando parli di non-violenza?
La maggioranza dei palestinesi è pessimista e non fa nulla, quindi non è che debba convincerli di passare dalla violenza alla non-violenza; ciò che faccio è provare ad “attivare” le persone, perché comunque la stragrande maggioranza dei miei connazionali vuole restare pacifica, stare alla larga dall’Occupazione. Una volta “attivati” li porto sul campo, li faccio lavorare a qualcosa.
Lo scorso novembre avevo dei ragazzini palestinesi tra i dodici e i quattordici anni che mi erano venuti ad aiutare. Li avevo “agganciati” tramite Tik Tok, dove sono abbastanza seguito. Mi dicevano: “Issa, i coloni ti aggrediscono e da solo non puoi sconfiggerli. Li picchiamo noi se vuoi!”. Io gli dissi di lasciar perdere, di venire con me, ho cominciato a spiegargli la mia strategia, ma loro: “Ma no, Issa, così non funziona, dobbiamo proprio picchiarli!”. So bene che senza pratica la non-violenza non può essere compresa: è appunto una pratica, non è una teoria.
Quando al checkpoint un soldato cerca di provocare i ragazzini e loro si mettono a cantare, ti godi quello che succede in quel momento, percepisci il soldato che scoppia di rabbia e senti la felicità dei ragazzini. Io offro loro le tattiche per trasformare la rabbia da un fatto negativo a uno positivo. È ciò che ho insegnato anche a me stesso. Come ti dicevo, ero arrivato al punto che non avrei neppure stretto la mano a un ebreo…
Quando hai cambiato il tuo atteggiamento nei confronti degli ebrei?
Quando ho iniziato a costruire il movimento internazionale di solidarietà con me c’erano molti stranieri non israeliani. Una volta uno di loro mi disse: “Sono ebreo”. Era una persona fantastica. Io gli risposi: “Ma come! Gli ebrei sono nostri nemici! Guarda cosa hanno fatto alla moschea di Abramo, guarda cosa fa l’esercito...”. Lui cominciò a spiegarmi cos’è l’ebraismo e mi sono ricreduto. In seguito ho scoperto che c’erano molti ebrei che credevano nei diritti dei palestinesi, così col tempo il mio atteggiamento è cambiato. Mi ricordo di “Breaking the silence”, che ha avuto inizio nel 2005. Ero andato dalle famiglie palestinesi a dire che c’erano ebrei che volevano incontrarli per dimostrare solidarietà, ma la maggior parte aveva rifiutato. Mi dicevano: “Issa, gli ebrei sono tutti uguali”. Adesso, invece, quando gli israeliani vengono a Hebron e capita che vengano aggrediti da coloni o dall’esercito, si possono rifugiare nelle case dei palestinesi dove ormai sono i benvenuti. Questo è un altro grande risultato.
Cosa succede nella tua comunità? C’è speranza tra i giovani per il futuro?
Io un futuro lo vedo, ci sono sempre più persone che si danno da fare in tutto il mondo, in special modo nella comunità ebraica della diaspora americana. Qui molti si uniscono alla nostra lotta o sostengono il mio lavoro sul campo. Ho ottime relazioni con le famiglie locali e riesco a convincerle a rimanere, a non abbandonare le case, perché ora la tattica del governo israeliano non è più sfrattare direttamente ma rendere le cose tanto difficili da spingere i palestinesi ad andarsene.
Sono molto orgoglioso di aver lavorato a due report molto importanti, uno sull’apartheid curato da “Bt’salem”, e un altro di Human rights watch e Amnesty su Hebron. Spesso il “New York Times” o il “Washington Post” mi chiamano, ci danno una voce, cosa che non succedeva fino a qualche anno fa. Mi ha sconvolto vedere che invece in Italia non c’è così tanto spazio sui media per la causa palestinese. Sono stato in parlamento, ho parlato con i deputati, con la gente comune, ma non vedo qui molti ebrei della diaspora al lavoro per la Palestina. Ero a casa di un’attivista ebrea e le suggerivo di dar vita a una sezione italiana di “If not now”, un gruppo di ebrei con base negli Usa, ma lei mi ha risposto che stava nascondendo la sua identità ebraica. Le ho detto che non avrebbe dovuto nascondersi, che era utile manifestare la sua identità, dire: “Sono ebrea e mi oppongo all’Occupazione e all’apartheid”.
Perché anche molti ebrei sono contrari all’apartheid, e sono proprio loro quelli che possono capirlo meglio di tutti, dato che nella storia hanno patito e patiscono ancora l’antisemitismo. Possono comprendere cosa intendo quando dico che per legge io non sono uguale agli altri.
Quindi la comunità palestinese ti sostiene?
Sì, è grazie a questo sostegno che rimango attivo.
Com’è la situazione per le donne? Talvolta si dice che loro sono vittime di una “doppia occupazione”…
Certo, è giusto metterla così. Ecco perché abbiamo costituito “Karamati”, proprio per dare loro spazio, offrire loro una formazione, farle esprimere, collaborare, difendere le cose che stanno loro a cuore. Facciamo corsi di ebraico e inglese, organizziamo escursioni al mare e molte altre attività sociali.
I tuoi amici, le persone con cui sei cresciuto, cosa pensano di ciò che fai? C’è qualcuno che pensa non ci sia speranza?
L’ho sentito dire di continuo riguardo tutti i progetti che ho fatto nella mia vita: “È una missione impossibile”. Io però credo nel rendere possibile l’impossibile. Devi lavorare duramente e convincerti che puoi anche cambiare le cose, ma non c’è cambiamento senza un prezzo da pagare.
In realtà la maggior parte dei miei conoscenti se n’è andata. A volte mi dicono: “Issa, vieni anche tu, fatti una bella vita”. D’altra parte ora sono ingegnere, ho un master in cooperazione internazionale e sviluppo conseguito all’Università di Betlemme. Però io credo di essere nato per aiutare la mia comunità, la mia gente. Ora sto preparando il mio Phd sull’etica della sorveglianza e l’Occupazione.
Ci sono mai stati momenti in cui hai pensato di andartene?
Non riuscirei. Nel 2018 ho lasciato la Palestina per andare a Santa Cruz, negli Stati Uniti, in California. C’è la spiaggia… Ci sono rimasto solo due settimane. Non sono riuscito a stare di più, non potevo. Dovevo tornare a Hebron.
Quando torni dall’estero che percorso fai?
Passo dalla Giordania, ma anche da lì non è facile, l’Occupazione mi crea problemi.
Noi attivisti abbiamo problemi ovunque. Almeno non sono politicamente affiliato a nessuno, sono liberal, non possono darmi del sinistroide. Non lo sono. Non possono dirmi niente, sono solo uno che difende i diritti umani, di chiunque siano.
Ah, sai che mio fratello è ucraino?
Come?
Sì, vive in Ucraina da trent’anni, ha una famiglia lì, sua moglie è ucraina. Lo scorso febbraio mi aveva detto: “Issa, lascia Hebron, vieni a vivere a Kharkiv”. Ci pensi? Andarmene da Hebron per Kharkiv…
(a cura di Barbara Bertoncin e Stefano Ignone)
Puoi raccontarci la tua storia?
Sono nato nel 1980 nella città vecchia di Hebron, dove poi ho sempre vissuto. Ho studiato a Hebron, in una scuola vicina alla moschea di Abramo. Mio padre è cresciuto in orfanotrofio, suo padre era stato ucciso dall’Occupazione perché trafficava beni tra la Cisgiordania e Gaza. Soprattutto per questo mio padre voleva che io stessi alla larga dalla politica, come aveva sempre fatto lui; gli bastava che fossi un bravo studente e giocassi a pallone con gli amici. Ecco, si può dire che giocare a calcio e studiare fossero queste le mie passioni da piccolo. Questa era la mia vita.
Sono cresciuto in mezzo ai coloni, anche se gli insediamenti che già c’erano negli anni Ottanta si trovavano ai margini della città e non erano tanti; anche i soldati erano pochi, se ne vedeva soltanto qualcuno qua e là. La città, per me, aveva un’identità pienamente palestinese.
A casa mia non si parlava mai dell’Occupazione. L’evento che mi ha indirizzato verso la politica è stata la strage della moschea di Abramo del 1994, dove furono uccisi oltre sedici palestinesi e più di sessanta rimasero feriti. In quella strage persi un amico, un ragazzo di un anno più giovane di me con cui giocavo a calcio e il cui fratello era mio compagno di classe. L’evento mi lasciò sconvolto e scatenò il mio odio per gli ebrei. Subito dopo quel fatto non sono andato a scuola per tre mesi. Avevo paura dei coloni e di chiunque indossasse la kippah.
Il mio sogno era laurearmi in ingegneria, prendere un dottorato e diventare docente universitario. Questa era la vita che volevamo sia io sia la mia famiglia, così nel 1998 mi sono iscritto all’Università palestinese di Hebron. Studiavo giorno e notte ma, giunto all’ultimo anno, la mia Università venne chiusa a causa dell’Occupazione. La cosa mi fece infuriare. Ricordo che tornai a casa distrutto, pronto a scatenare la mia vendetta contro Israele. Eravamo nel mezzo della Seconda intifada, l’esercito ormai era ovunque e faceva raid in ogni quartiere. All’epoca volevo proprio fare la rivoluzione. Per fortuna, i primi autori che lessi furono Gandhi, Martin Luther King e altri esponenti del movimento pacifista, ma il problema era che, con questi, faticavo a convincere i miei compagni alla non-violenza, perché non erano autori musulmani. Studiando ancora scoprii il pensiero di Bacha Khan, un attivista non violento seguace di Gandhi e -soprattutto- musulmano. Dai suoi scritti e dai suoi insegnamenti di imam ho appreso molto su come usare l’Islam per la non violenza. Forte di questi studi, tornai dai miei compagni per convincerli a fare qualcosa per riaprire l’Università e opporci all’esercito israeliano usando la non violenza. Dopo alcuni mesi riuscimmo a occupare il campus, cosa che attirò l’attenzione dei media e ci fece guadagnare l’interesse di gruppi di solidarietà. Lì assaggiai la vittoria. L’esercito alla fine si arrese e consentì la riapertura del campus, ma i professori si rifiutavano di insegnare perché avevano paura. Continuammo la nostra campagna convincendo gli studenti degli ultimi anni a insegnare alle matricole. Fu poi lo stesso esercito israeliano ad assicurarsi che i professori tornassero al lavoro, ma aggiungendo: “Non pensate però che sia merito di Issa Amro o dei suoi amici!”. A me andava bene lo stesso; il mio obiettivo, all’epoca, non era la lotta contro l’Occupazione, ma una cosa personale, dettata dall’egoismo: potermi laureare. E si può dire che ottenni due titoli da quell’università: il primo in ingegneria, il secondo come attivista.
Come hai proseguito?
Nel 2003 cominciai a formare a Hebron un movimento internazionale di solidarietà con la causa palestinese. Nel 2004 mi recai a Masafer Yatta, un villaggio nel sud-est, dove volevamo aiutare alcune famiglie che avevano ricevuto il permesso della Corte suprema di reinsediarsi, ma che subivano continuamente le aggressioni dei coloni. Poi iniziai un progetto a Tal-Rumeida, “figli di Abramo”, che comprendeva palestinesi, israeliani e altri da tutto il mondo impegnati a monitorare i rapporti tra israeliani e palestinesi, a documentare ciò che stava accadendo e a scriverne. Nel 2006 abbiamo creato il “camera project” per distribuire macchine fotografiche alle famiglie; quella delle macchine fotografiche è stata una mia idea. In seguito “Bt’salem” l’ha apprezzata e fatta propria. Così nel 2007 ho cominciato a lavorare con loro come coordinatore del progetto.
Puoi spiegarci in cosa consisteva il “Camera project”?
Nel 2006 era in corso un’impennata della violenza da parte di Israele. Noi, attivisti palestinesi, israeliani e di tutto il mondo andavamo in giro con le nostre macchine fotografiche, ma non riuscivamo mai a cogliere le violenze sul fatto. Se i coloni attaccavano un insediamento palestinese, quando arrivavamo noi era già tutto finito. Di qui la mia idea di lasciare i nostri apparecchi fotografici alle famiglie. I miei colleghi inizialmente erano contrari: “Le fotocamere ci servono…”, così cominciammo a raccogliere donazioni con il primo obiettivo di distribuire sei macchine fotografiche capaci anche di registrare video. Ricordo che però, inizialmente, le famiglie le rifiutavano.
Perché?
Dicevano che era inutile e pericoloso. Io rispondevo che, sì, sicuramente era pericoloso, ma di certo non inutile! Così addestrammo donne e bambini a usare gli apparecchi, perché erano loro che stavano sempre a casa. Per proteggerli li avevo assicurati che non appena fosse successo qualcosa mi avrebbero dovuto chiamare e sarei arrivato subito. Una delle prime volte mi chiamò una famiglia perché i coloni li attaccavano continuamente, loro li stavano riprendendo e volevano che andassi subito. Andai e fui arrestato.
Un’altra volta, nel 2007, a Tel-Rumeida avevamo convinto una famiglia a utilizzare una foto-videocamera, e qualche mese dopo mi avevano consegnato il materiale. Io gli avevo chiesto: “Avete registrato qualcosa di speciale?” e loro: “No, solo cose normali”. Alle due di notte un operatore di “Bt’salem” mi chiama: “Issa! Nella registrazione c’è qualcosa di molto importante, domattina vai da quella famiglia e chiedi il permesso di pubblicarlo”. Mi disse che avevano registrato una colona israeliana che insultava la donna palestinese dandole della “sharmuta”, che significa “puttana”. Così andai dalla signora di quella famiglia e chiesi: “Beh, avete ripreso questa cosa e non mi avete detto niente?”, e lei: “Non te l’abbiamo detto perché non è niente di speciale, succede tutti i giorni”. Pubblicammo il video e girò parecchio, divenne virale, al punto che la Knesset dovette formare un comitato speciale per investigare sull’episodio.
In seguito cominciammo il progetto di distribuzione macchine fotografiche insieme a “Bt’salem” e io ne divenni il coordinatore. Giravo tutta la Cisgiordania, formavo le famiglie su come usare gli apparecchi, come nasconderli, come documentare. Le macchine fotografiche potevano essere usate per autodifesa, perché legalmente i palestinesi sono sottoposti a legge militare e quindi sono considerati colpevoli fino a prova contraria, così i video servivano in primo luogo a proteggerli. Riuscimmo a distribuire molti apparecchi. Il nostro sogno era di distribuire ventimila macchine fotografiche, eravamo convinti che così avremmo messo fine all’occupazione.
Siete riusciti a distribuirne tante?
Sognavamo di farlo, ma ora non è più necessario, perché si è venuta a creare la cultura del riprendere e ciascuno lo fa con il proprio smartphone. Ora continuo a girare ma non più per distribuire fotocamere, bensì per insegnare cosa si può fare, cosa non si può fare, come proteggere i documenti…
Dopo il “Camera project” come hai proseguito?
Contemporaneamente ho messo in piedi un gruppo chiamato “Youth Against Settlements”, la cui idea principale era reclutare i giovani alla lotta non-violenta. Ho cominciato a girare le università, le scuole, a fare lezioni, a parlare di campagne organizzate, attività concrete, tutte cose con cui avremmo potuto rendere l’occupazione insostenibile per Israele. Poi abbiamo organizzato una campagna internazionale chiamata “Open streets campaign”, con cui siamo stati tante volte in giro per il mondo, anche in Italia. Ho lasciato “Bt’salem” nel 2011 per avere più libertà d’azione. Da allora organizzo molte attività non-violente. Oggi lavoro con “Breaking the silence”, con “Yesh Din”, con “Bt’salem”, con “Peace Now”, con “Rabbis for Human Rights”, con cui organizziamo molte azioni differenti, anche illegali. Abbiamo creato un gruppo femminile chiamato “Karamati”, “La mia dignità”, per dare alle donne palestinesi uno spazio nei pressi della moschea di Abramo dove svolgere attività sociali, politiche, imprenditoriali. I bambini ci vanno a giocare, ci teniamo molte lezioni sulla non-violenza e proiezioni di film.
Hai partecipato anche a dei film…
Sì, il più famoso è “H2-The Occupation Lab”, che parla di Hebron ed è basato su “How to make a revolution”, un’opera teatrale che avevo scritto con Einat Weizman, un’artista israeliana. Il film parla della mia vita sotto l’Occupazione, di come funzionano i tribunali militari e della corruzione dell’Autorità palestinese, di come ero stato arrestato dall’Autorità per aver criticato il regime di Abu Mazen e il modo in cui questa perseguita cittadini e giornalisti…
Dunque sei stato arrestato da entrambi…
Sì, l’Autorità palestinese mi ha arrestato due-tre volte. È un potere corrotto, una dittatura che vìola di continuo i diritti umani. Io ne parlo e a loro non sta bene. Un giornalista palestinese era stato arrestato per aver criticato Abu Mazen, lo hanno incarcerato e io, per aver organizzato una campagna in sua difesa, sono stato a mia volta arrestato e processato “per aver criticato pubblicamente l’Autorità”. Sono queste le accuse tipiche. Ah, ma la maggioranza dei palestinesi è contro l’Autorità, conoscono bene la loro corruzione.
Qual è la situazione oggi a Hebron?
Come dicevo, i palestinesi sono sotto l’egida della legge militare, che significa che essere colpevoli fino a prova contraria. Non mi è concesso neppure usare la resistenza non-violenta. I coloni, invece, sono sottoposti al diritto civile israeliano, la legge “normale”; ciò significa che anche se sono stato vittima di attacchi da parte dei coloni sono io a essere arrestato. C’è un fatto che si è verificato nel maggio scorso di cui hanno parlato tutti i media israeliani. Nel 2013, Baruch Marzel, il fondatore del partito di estrema destra “Otzma Yehudit”, mi aveva aggredito e io l’avevo denunciato. Nel 2023 Marzel ha patteggiato con il tribunale la pena di una settimana di prigione (pena sospesa), senza che io venissi coinvolto, di fatto togliendomi la possibilità di affrontarlo in tribunale. Questo dopo dieci anni di processo. Capisci cosa intendo? Anche l’ex ambasciatore statunitense in Israele, Daniel B. Shapiro, nel 2016 aveva denunciato ufficialmente l’esistenza di questo doppio standard. Questo vale in particolare a Hebron, dove io vivo circondato da un recinto. Sì, tra me e i coloni c’è una recinzione.
Io organizzo visite guidate con ebrei americani della diaspora, gente di ogni tipo, di destra e di sinistra, e li invito a casa mia. Lo scorso febbraio, mentre mi trovavo con Lawrence Wright, uno scrittore americano, sono stato aggredito dai soldati.
Anche di questo episodio c’è un video, ripreso da un fotografo, e anche questo ha fatto il giro del mondo, ne hanno parlato i principali media israeliani, ma anche quelli americani. Il primo novembre scorso sono stato arrestato per aver ripreso un soldato israeliano che picchiava un ospite palestinese-israeliano, ma soprattutto perché nel video si vede un altro soldato che dice che erano “ordini di Itamar Ben Gvir”, il ministro per la sicurezza nazionale, un estremista, anche lui del partito “Otzma Yehudit”, uno dei promotori della riforma per sovvertire la Corte suprema israeliana, contro cui tanti israeliani sono scesi in strada lo scorso marzo. Anche questa volta sono stato arrestato e il video è circolato molto. Parlavano tutti di come un palestinese fosse riuscito a riprendere dei soldati che violavano il codice di condotta dell’esercito. Dopo quest’altro episodio sono stato maltrattato, hanno razziato casa mia, quella dei miei genitori, mi hanno confiscato tutti i dispositivi elettronici… Questa è la situazione. Insomma, io e i miei amici israeliani e palestinesi siamo una minaccia al progetto dell’Occupazione, ma siccome non riescono a sbarazzarsi di noi, devono prendersela con le nostre case, razziarle, arrestarci e intimidirci di continuo.
Ormai sono sotto minacce di morte. Il ministro della sicurezza nazionale ha dichiarato: “Issa Amro è un anarchico”, e, riferito ai video delle aggressioni che ho subìto, “si è meritato ciò che gli è capitato” ed “è giusto che i soldati agiscano così con lui”. Direi che mi temono molto.
Di cosa vivono le persone a Hebron?
A Hebron ci sono due tipi di palestinesi. Quelli che vivono nella zona H1 se la cavano molto bene, producono scarpe, materassi, sedie, materiali plastici, lavorano nel settore produttivo cittadino. Nella zona H2, invece, il tasso di disoccupazione è oltre il 70%, quello di povertà supera l’80%, per cui i residenti dipendono dagli aiuti. Una cosa che proviamo a fare sono i progetti per le famiglie, per aiutarle ad avere un introito, magari preparando pasti, ospitando persone che vengono da altri paesi, vendendo prodotti online.
Quando hai deciso di darti all’attivismo come ha reagito la tua famiglia?
All’inizio nascondevo loro ciò che facevo, al punto che arrivai a bloccare mia madre su Facebook. Quando lo dissi ai miei, feci loro capire che potevo scegliere tra resistenza armata e non-violenza, e chiesi: cosa preferite? Mio padre mi consigliò di seguire la non-violenza e a me stava bene.
Insomma, ho sfidato la mia famiglia, la mia società e sfido tuttora chiunque a usare l’arma della non-violenza, ma sta funzionando.
Di solito, quando vado a parlare ad altri palestinesi, porto loro gli esempi delle mie vittorie, del centro comunitario per le donne, del fatto che sono riuscito a fondare un asilo o di come sono riuscito a proteggere il mio appezzamento di terra e molte altre case solo facendo ricorso alla resistenza non-violenta. Ritengo che stiamo ottenendo buoni risultati.
Certo, giochiamo in difesa, difendiamo i nostri diritti, la nostra proprietà, la nostra identità, la nostra città.
Come reagiscono le persone quando parli di non-violenza?
La maggioranza dei palestinesi è pessimista e non fa nulla, quindi non è che debba convincerli di passare dalla violenza alla non-violenza; ciò che faccio è provare ad “attivare” le persone, perché comunque la stragrande maggioranza dei miei connazionali vuole restare pacifica, stare alla larga dall’Occupazione. Una volta “attivati” li porto sul campo, li faccio lavorare a qualcosa.
Lo scorso novembre avevo dei ragazzini palestinesi tra i dodici e i quattordici anni che mi erano venuti ad aiutare. Li avevo “agganciati” tramite Tik Tok, dove sono abbastanza seguito. Mi dicevano: “Issa, i coloni ti aggrediscono e da solo non puoi sconfiggerli. Li picchiamo noi se vuoi!”. Io gli dissi di lasciar perdere, di venire con me, ho cominciato a spiegargli la mia strategia, ma loro: “Ma no, Issa, così non funziona, dobbiamo proprio picchiarli!”. So bene che senza pratica la non-violenza non può essere compresa: è appunto una pratica, non è una teoria.
Quando al checkpoint un soldato cerca di provocare i ragazzini e loro si mettono a cantare, ti godi quello che succede in quel momento, percepisci il soldato che scoppia di rabbia e senti la felicità dei ragazzini. Io offro loro le tattiche per trasformare la rabbia da un fatto negativo a uno positivo. È ciò che ho insegnato anche a me stesso. Come ti dicevo, ero arrivato al punto che non avrei neppure stretto la mano a un ebreo…
Quando hai cambiato il tuo atteggiamento nei confronti degli ebrei?
Quando ho iniziato a costruire il movimento internazionale di solidarietà con me c’erano molti stranieri non israeliani. Una volta uno di loro mi disse: “Sono ebreo”. Era una persona fantastica. Io gli risposi: “Ma come! Gli ebrei sono nostri nemici! Guarda cosa hanno fatto alla moschea di Abramo, guarda cosa fa l’esercito...”. Lui cominciò a spiegarmi cos’è l’ebraismo e mi sono ricreduto. In seguito ho scoperto che c’erano molti ebrei che credevano nei diritti dei palestinesi, così col tempo il mio atteggiamento è cambiato. Mi ricordo di “Breaking the silence”, che ha avuto inizio nel 2005. Ero andato dalle famiglie palestinesi a dire che c’erano ebrei che volevano incontrarli per dimostrare solidarietà, ma la maggior parte aveva rifiutato. Mi dicevano: “Issa, gli ebrei sono tutti uguali”. Adesso, invece, quando gli israeliani vengono a Hebron e capita che vengano aggrediti da coloni o dall’esercito, si possono rifugiare nelle case dei palestinesi dove ormai sono i benvenuti. Questo è un altro grande risultato.
Cosa succede nella tua comunità? C’è speranza tra i giovani per il futuro?
Io un futuro lo vedo, ci sono sempre più persone che si danno da fare in tutto il mondo, in special modo nella comunità ebraica della diaspora americana. Qui molti si uniscono alla nostra lotta o sostengono il mio lavoro sul campo. Ho ottime relazioni con le famiglie locali e riesco a convincerle a rimanere, a non abbandonare le case, perché ora la tattica del governo israeliano non è più sfrattare direttamente ma rendere le cose tanto difficili da spingere i palestinesi ad andarsene.
Sono molto orgoglioso di aver lavorato a due report molto importanti, uno sull’apartheid curato da “Bt’salem”, e un altro di Human rights watch e Amnesty su Hebron. Spesso il “New York Times” o il “Washington Post” mi chiamano, ci danno una voce, cosa che non succedeva fino a qualche anno fa. Mi ha sconvolto vedere che invece in Italia non c’è così tanto spazio sui media per la causa palestinese. Sono stato in parlamento, ho parlato con i deputati, con la gente comune, ma non vedo qui molti ebrei della diaspora al lavoro per la Palestina. Ero a casa di un’attivista ebrea e le suggerivo di dar vita a una sezione italiana di “If not now”, un gruppo di ebrei con base negli Usa, ma lei mi ha risposto che stava nascondendo la sua identità ebraica. Le ho detto che non avrebbe dovuto nascondersi, che era utile manifestare la sua identità, dire: “Sono ebrea e mi oppongo all’Occupazione e all’apartheid”.
Perché anche molti ebrei sono contrari all’apartheid, e sono proprio loro quelli che possono capirlo meglio di tutti, dato che nella storia hanno patito e patiscono ancora l’antisemitismo. Possono comprendere cosa intendo quando dico che per legge io non sono uguale agli altri.
Quindi la comunità palestinese ti sostiene?
Sì, è grazie a questo sostegno che rimango attivo.
Com’è la situazione per le donne? Talvolta si dice che loro sono vittime di una “doppia occupazione”…
Certo, è giusto metterla così. Ecco perché abbiamo costituito “Karamati”, proprio per dare loro spazio, offrire loro una formazione, farle esprimere, collaborare, difendere le cose che stanno loro a cuore. Facciamo corsi di ebraico e inglese, organizziamo escursioni al mare e molte altre attività sociali.
I tuoi amici, le persone con cui sei cresciuto, cosa pensano di ciò che fai? C’è qualcuno che pensa non ci sia speranza?
L’ho sentito dire di continuo riguardo tutti i progetti che ho fatto nella mia vita: “È una missione impossibile”. Io però credo nel rendere possibile l’impossibile. Devi lavorare duramente e convincerti che puoi anche cambiare le cose, ma non c’è cambiamento senza un prezzo da pagare.
In realtà la maggior parte dei miei conoscenti se n’è andata. A volte mi dicono: “Issa, vieni anche tu, fatti una bella vita”. D’altra parte ora sono ingegnere, ho un master in cooperazione internazionale e sviluppo conseguito all’Università di Betlemme. Però io credo di essere nato per aiutare la mia comunità, la mia gente. Ora sto preparando il mio Phd sull’etica della sorveglianza e l’Occupazione.
Ci sono mai stati momenti in cui hai pensato di andartene?
Non riuscirei. Nel 2018 ho lasciato la Palestina per andare a Santa Cruz, negli Stati Uniti, in California. C’è la spiaggia… Ci sono rimasto solo due settimane. Non sono riuscito a stare di più, non potevo. Dovevo tornare a Hebron.
Quando torni dall’estero che percorso fai?
Passo dalla Giordania, ma anche da lì non è facile, l’Occupazione mi crea problemi.
Noi attivisti abbiamo problemi ovunque. Almeno non sono politicamente affiliato a nessuno, sono liberal, non possono darmi del sinistroide. Non lo sono. Non possono dirmi niente, sono solo uno che difende i diritti umani, di chiunque siano.
Ah, sai che mio fratello è ucraino?
Come?
Sì, vive in Ucraina da trent’anni, ha una famiglia lì, sua moglie è ucraina. Lo scorso febbraio mi aveva detto: “Issa, lascia Hebron, vieni a vivere a Kharkiv”. Ci pensi? Andarmene da Hebron per Kharkiv…
(a cura di Barbara Bertoncin e Stefano Ignone)
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