Haim Hanegbi. Vorrei cominciare citando alcuni versi di Yehuda Amihai.
Dei tre o quattro nella stanza
Uno è sempre vicino alla finestra ,
Deve vedere
I misfatti tra i rovi
Ed i fuochi sulla collina,
E come la gente partita intera la mattina
E’ tornata sotto forma di poche monetine la sera
Yigal Shohat. Questa sera sono qui in seguito a una lettera che scrissi in luglio. In quella lettera non parlavo di un’obiezione di coscienza totale. La verità è che non ho ancora pienamente elaborato una mia opinione sull’opzione di rifiutare completamente il servizio militare nell’Idf (esercito israeliano).
Io sono a favore dello Stato di Israele, per la difesa della sua sicurezza, per la difesa dei suoi confini e anche per la lotta contro il terrorismo locale e internazionale che ci minaccia. Per questo l’esercito è necessario. D’altra parte non posso rassegnarmi ad accettare l’attuale occupazione in corso. Il fatto che una dopo l’altra le generazioni dei soldati continuino a essere impiegate in questa occupazione dà ai governi che si susseguono il potere di mantenere il controllo su territori e colonie e di opprimere i palestinesi. Mi trovo quindi in questo grave dilemma che per me, almeno temporaneamente, ho risolto opponendomi al servizio militare nei territori occupati più che con un rifiuto totale alla leva. So che c’è dell’ipocrisia in questa scelta. Un soldato che lavora negli uffici dello Stato Generale a Tel Aviv, svolgendo mansioni burocratiche può procurare più danno di un soldato a un checkpoint nei territori. E tuttavia io credo che il rifiuto di servire l’esercito nei territori occupati dia un messaggio politico e morale più preciso. Significa che tu vuoi proteggere il tuo paese e combattere per esso, e però non sei disposto a opprimere un’altra nazione, atto peraltro con effetti negativi sul piano della sicurezza di Israele. Attualmente infatti il servizio militare nei territori occupati mette a repentaglio la sicurezza di Israele e serve solo alla sicurezza dei coloni. Credo ci sia un accordo generale su questo punto.
Per quanto riguarda i piloti di elicotteri, da combattimento, tutti i piloti, non possono limitarsi a rifiutare di operare oltre la linea verde (confini ’67), perché la loro azione non è limitata al luogo in cui vengono mandati. Loro devono decidere, giorno per giorno, a volte di ora in ora, ciò che possono e ciò che non possono fare in base a una prospettiva morale e legale. Non sono un ingenuo. So che qualunque pilota rifiuti una prima o una seconda volta di bombardare Nablus o Ramallah finirà presto la sua carriera -perché comunque è una carriera. Volare è un modo di vita e una professione. Non si tratta mai solamente di un’azione, da coscritto o da riservista, da farsi rapidamente tornando a casa salvi. Quindi, quando discutiamo di piloti, io sono del parere di espandere il concetto di “bandiera nera”.
A mio avviso, i piloti devono esaminare gli ordini che ricevono molto attentamente, fare tutte le domande possibili sugli obiettivi e rifiutare di seguire qualsiasi ordine paia loro illegale.
In realtà io temo che loro non siano affatto preoccupati di questi discorsi. Piuttosto temo che ognuno competa con gli altri per vedersi assegnato il compito di assassinare qualcuno nella strada principale di Nablus, o di lanciare una bomba su un edificio di Ramallah. Probabilmente rientrano soddisfatti quando colpiscono il loro obiettivo, casomai dispiaciuti se è stato ucciso anche qualche civile.
Ricordo di aver provato anch’io questi stessi sentimenti. La gente vuole distinguersi nel proprio lavoro, vuole l’ “azione”. Del resto è per questo che diventano piloti da combattimento.
Credo che un pilota di F-16 dovrebbe rifiutarsi di bombardare città palestinesi.
Posso immaginare come doveva sembrare Ramallah quando un F-16 ha bombardato il suo Quartiere generale. E non mi riferisco semplicemente alle persone uccise, parl ...[continua]
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