Da sempre Rom e Sinti, al pari degli ebrei, costituiscono un problema in un mondo fatto di stati nazionali poiché, ancorché "cittadini”, non sono considerati, e spesso non si sentono, del tutto parte integrante della nazione alla quale formalmente appartengono. La nazione storicamente si è configurata come un’entità quasi sacra, in grado di chiedere ai suoi cittadini fedeltà assoluta, fino al limite del sacrificio della vita e che non tollera fedeltà parziali. Non è un caso che, quando il nazionalismo raggiunge le forme più estreme, come è stato durante il nazismo, questi gruppi siano oggetto di feroci persecuzioni. Ebrei e "zingari” sono stati apparentati nell’olocausto.
Si poteva sperare che il declino degli stati nazionali e dell’idea di nazione dopo la II Guerra mondiale avrebbe permesso forme più umane di convivenza, e forse di integrazione, per questi gruppi nella società europea. I recenti avvenimenti dimostrano che le speranze erano fondate su aspettative troppo ottimistiche. Ogni tanto si assiste a qualche sussulto sciovinistico (non importa se di micro o macro nazionalismo) ed allora gli "zingari”2, soprattutto se sono immigrati di recente dai paesi dell’Est, diventano di nuovo oggetto di reazioni di rigetto e di misure ostili che ottengono spesso largo consenso da parte delle popolazioni autoctone. Politici spregiudicati e in cerca di consenso hanno buon gioco nello sfruttare i sentimenti xenofobi diffusi che circondano gli "zingari”. Si mette in moto il meccanismo del capro espiatorio, nell’illusione che, se si riesce a espellere il corpo estraneo, si eliminino con esso tutti, o almeno una parte, i mali che affliggono il corpo sociale.
Lo sdegno di fronte a queste manifestazioni di pregiudizio non consentono tuttavia di esorcizzare il problema. Il problema resta e non è assolutamente facile trovarne una soluzione.
Tradizionalmente gli "zingari” erano una popolazione nomade che si muoveva negli interstizi di una società costituita da una popolazione fondamentalmente stanziale: andavano di villaggio in villaggio, come allevatori di cavalli, maniscalchi, arrotini, musicanti e altre forme di artigianato itinerante. Ora, la situazione è drasticamente cambiata: i mestieri tradizionali sono scomparsi, la società è diventata mobile, gli "zingari” hanno largamente smesso di essere nomadi e sono diventati stanziali. Alcuni, una minoranza, si sono integrati, hanno studiato, fanno una vita normale, pur mantenendo legami e tratti più o meno forti della cultura d’origine, altri, la maggioranza, vivono ai margini delle città e trovano spesso le loro fonti di sostentamento nelle elemosine, nell’accattonaggio e talvolta anche nel furto. Nell’immagine stereotipata della popolazione domina il pregiudizio in base al quale tutti gli "zingari” sono dei ladri.
Col tempo la loro cultura, come tutte le culture, è destinata a trasformarsi e, forse, a estinguersi. Certamente le culture "gitane”, che tanto fascino hanno esercitato nella letteratura europea degli ultimi tre secoli, non potranno conservarsi nella loro purezza, peraltro indefinibile. Percorreranno strade diverse a seconda delle strategie che i vari gruppi adotteranno e delle condizioni poste dalle società nelle quali si troveranno ad abitare.
Se si troveranno di fronte tanti Sarkozy finiranno per tornare a migrare di terra in terra nella speranza di trovarne una meno inospitale e meno ostile.
Ci possiamo chiedere come dovrebbe essere una società capace di sviluppare forme civili di accoglienza nei confronti di una popolazione così particolare. La risposta mi sembra possa orientarsi lungo tr ...[continua]
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