Nel ‘39 mio padre ebbe l’intuizione di andar via. E nel ’39 eravamo mio padre, mia madre, cinque figli e il sesto in arrivo, e nonostante tutto mio padre prese la decisione. E andammo a Genova, lo ricordo, con la sola indicazione di un consolato della Bolivia. In un periodo in cui non davano quasi più visti, perché troppa gente si radunava a Genova per andare in Sudamerica. Una delle cose che salvò mio padre fu la conoscenza dello spagnolo, il nostro spagnolo da sefarditi, uno spagnolo antico che ci si tramanda di padre in figlio. Fu grazie a questo nostro spagnolo che al consolato presero in simpatia mio padre. Dovette però fare il biglietto di andata e ritorno. E gli fecero anche firmare una dichiarazione che si viaggiava per turismo. Figuriamoci, marito e moglie con 5 figli.
E poi la nostra salvezza dipese anche dal fatto che mio padre era venuto in Italia nel ‘20 dalla Grecia e aveva mantenuto il passaporto greco. Così fu spinto a decidere anche dal fatto che, in teoria, le leggi razziali del ‘38 obbligavano gli ebrei cosiddetti stranieri ad andarsene. In teoria, perché poi, come tutte le cose all’italiana, si poteva restare. Soprattutto se i figli erano nati in Italia. Infine fu influenzato anche dagli amici che dicevano che ci avrebbero protetto, aiutato, eccetera e tutta quella compassione dette un po’ fastidio a mio padre. Così decise per il Sudamerica. Siamo tornati nel ’48 e allora abbiamo saputo cosa era successo.
Lo zio invece?
Mio zio Nissim stava abbastanza bene economicamente, aveva amicizie influenti, allora un po’ ci si adagiava. Perché in Italia, nascondendosi, salvo qualche spiata ci si salvava. Salvo qualche spiata. Ma loro si sentivano sicuri. E non vollero neanche separarsi. O neanche scappare assieme lontano. Per esempio mia moglie, di Trieste, con la famiglia finì nelle Marche, in campagna, e un prete li aiutò. E invece anche mio cugino Roberto che aveva già programmato di andarsene in America, alla fine rimase. Insomma restarono tutti insieme a Bologna e nelle vicinanze. E furono presi. Il motivo per cui tanti non si sono salvati è semplicissimo: perché ragionavano “se non ho fatto nulla, se non ho fatto del male a nessuno, perché mi devo nascondere”.
Finzi. Non si aveva un’idea. Non si credeva. Il caso della mia famiglia è particolare. I miei zii erano di Bolzano e mio zio con mio cugino, Alberto, che aveva 17 anni, furono presi la sera stessa dell’8 settembre. Ed era rimasta soltanto mia zia con due figlie, una di 16, una bellissima ragazza, e una di 3 anni. E la mia zia aveva la possibilità di portare da mangiare in carcere. Fu avvisata, da un altro zio di Mantova, di venir via, o almeno di lasciar andar via le bambine, ma la zia voleva restare vicino al carcere e non voleva separarsi dalla piccola. La grande allora decise di rimanere anche lei. La mattina del 17 settembre sono passati i fascisti a prenderle e il giorno dopo, da Merano dove c’era un campo di concentramento, sono stati portati via. Fu il primo convoglio che partì dall’Italia, il 18 settembre. I miei cugini e i miei zii erano su quello. Noi lo abbiamo saputo subito e il 19 settembre eravamo già in fuga da Ferrara. Di fronte a quell’evento mio padre e mio zio pensarono che non c’era più da fidarsi di nulla e presero la decisione.
E ci siamo salvati a Mondaino, dove siamo rimasti nascosti, l’ultimo comune della provincia di Forlì, a sud di Rimini. Eravamo tre famiglie, lo zio di Mantova con i 4 figli, e da Ferrara noi in 4 e la famiglia dell’altro mio zio. Eravamo in 10 a scappare. In una situazione in cui l’esercito italiano era sbandato e i tedeschi ancora non avevano preso piede si sperava di passare a sud. La prima notte ci siamo fermati a Ravenna, dove ci ospitò la famiglia Montanari, 10 persone, con tutti questi bambini, evitandoci il rischio di dover registrarci in albergo. Poi la mattina dopo siamo arrivati a Fano. C’erano rastrellamenti tedeschi, ma ancora cercavano prevalentemente soldati italiani, ma non ci fidammo ad andare oltre. E ci fermammo a Fano, in albergo. Ma nell’interno la valle era piena di sfollati e non si trovava posto. Così tornammo indietro fino a Gabicce dove avevamo fatto le vacanze estive. Affittammo una pensioncina che era già chiusa. Fatto sta che ci raggiunse anche il direttore del negozio di Mantova, Guido Vivanti, ebreo, che, non essendo della famiglia, prese alloggio nell’unico hotel aperto dove la sera si giocava anche a carte, e lui era un accanito giocato ...[continua]

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