Possiamo provare ad analizzare il rapporto tra letteratura e autobiografia?
Per inquadrare correttamente il problema, secondo me, occorre fare subito una premessa. Dobbiamo ammettere che la narrazione non si esaurisca nel romanzesco ma includa altre forme di espressione, quali diari, memorie, autobiografie, di cui la letteratura italiana, tra l’altro, è sempre stata molto ricca, soprattutto a partire dall’Ottocento. E direi che la mia tendenza a occuparmi di narrazione in chiave autobiografica, e non romanzesca, nasce proprio da qui. Mi sono immersa profondamente in questo terreno, in base anche a interessi personali, tanto che, come capita a molti, che di mestiere fanno i recensori o i professori, ho avuto io stessa la tentazione di passare a una forma di narrazione autobiografica.
Premesso questo, la narrazione autobiografica, rispetto alle altre forme di espressione, ha il vantaggio di permettere un misto di verità soggettiva e narrazione storica. La narrazione strettamente storica ti ancora in qualche modo a una forma di oggettività, al rispetto dei dati e dei fatti. La dimensione autobiografica, invece, ti porta verso una verità soggettiva che però, per essere garantita e potersi appellare con onestà intellettuale al lettore -questa almeno è la mia impostazione- deve avere il marchio della responsabilità che ciascuno si prende. Di qui, ad esempio, la scelta di lasciare nel mio libro i nomi veri, e di non sostituirli con nomi di fantasia, che magari costringono il lettore a una serie di giochi per capire chi si nasconda sotto quel nome fittizio. Questa scelta secondo me costituisce una garanzia di disciplina mentale; il nome vero ti vincola a fare i conti con quella persona, a volte presente in carne e ossa, a volte viva solo nella memoria, ma che comunque non puoi manipolare come si usa fare in un romanzo.
Però si dice che il romanzo racconti più verità di qualsiasi altra forma di espressione, magari più oggettiva…
Questo è un problema delicato. Intanto preciso che la narrazione autobiografica di cui mi sono occupata e in cui mi sono cimentata non vuole essere documento, non trascrive semplicemente il vissuto in un narrato. Tale passaggio avviene sempre attraverso un processo di “modellatura”, tramite una voce, un punto di vista, una dimensione diciamo pure letteraria, che trasforma i dati autobiografici in una narrazione e, come il romanzo, ha le sue radici antropologiche e le sue risonanze nell’immaginario, nel simbolico.
Nella narrazione non romanzesca, cioè non inventata eppur letteraria, entra questa dimensione di modellatura, di voce che racconta, di punto di vista, che ne fa qualcosa di diverso dal semplice documento, in cui ti limiti a trascrivere tutto quello che pensi interessante. Non è, per intenderci, la trascrizione autobiografica che si poteva fare coi racconti di vita di una volta, quando si facevano le inchieste tra gli emarginati, e nemmeno quella, peraltro utilissima, che si fa adesso, col racconto di altre culture, di cui si fa un resoconto che ha prevalentemente valore di documento e testimonianza.
Inoltre, come quando scrivi un romanzo, fai innanzitutto un’opera di selezione: tra le mille cose che potresti dire, raccontare, anche di te stesso, fai quella difficile selezione che fa il buon romanziere quando incomincia un romanzo. Così fai tu, raccontando porzioni di vita, che non sono mai la vita intera.
In sostanza la scelta che ho fatto in questi pezzi è di inserirmi nella deriva del romanzo. Deriva nel senso che il romanzo -ovvero quell’opera di invenzione che ha avuto la sua grande stagione nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento- chiede al lettore (perlomeno al lettore di una volta) un momento di credulità, una breve sospensione del distacco critico per immergersi nelle vicende. E questo avviene sia a livello alto, nel grande romanzo, sia nel puro intrattenimento.
Ora, per tante ragioni, l’operazione di prendere in mano un romanzo e abbandonarsi totalmente all’affabulaz ...[continua]
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