
Una Città n° 307 / 2025
febbraio
“L’Europa entra, gradualmente, nello spirito di Monaco [...]. Il fascismo ha trionfato sul pacifismo popolare d’Inghilterra e di Francia,
che era ed è spontaneo e umano odio della guerra, ma non consapevolezza politica dell’ora storica presente.
Il fascismo ha vinto in Italia, in Germania, in Austria, in Cecoslovacchia: dove vincerà ancora? Che sarebbe avvenuto
dei repubblicani spagnoli, se si fossero passivamente inchiodati a un pacifismo integrale? Noi odiamo
la guerra, ma abbiamo coscienza che non si serve la pace, capitolando di fronte alle forze della guerra [...].
Solidali con quanti il fascismo minaccia e colpisce, noi sentiamo che, resistendo con loro,
contribuiremo a ricostruire l’Europa di domani... Ché non è con Monaco che si ricostruisce
l’Europa. Monaco l’ha disfatta e gettata nell’ignoto”.
(Tratto da “La nuova era di pace”, “Giustizia e Libertà”, 4 novembre 1938)
febbraio 2025
In copertina
una lettera di ex prigionieri politici polacchi
Da Chamberlain a Trump
Il paragone con Monaco
di Stephen Eric Bronner
Dopo 500 giorni
Israele e Palestina e ora?
di Rimmon Lavi
Due popoli due stati
Al Congresso di “Sinistra per Israele”
interventi di Bernard Sabella, Jair Golan e Daniel Cohn-Bendit
Un binazionalismo egualitario
Una proposta etica, un dialogo possibile
intervista a Bashir Bashir
Perché poi votano per Netanyahu?
Il pericolo di una semplificazione
intervista a Ernesto Galli della Loggia
E adesso?
Dopo le elezioni in Germania
dialogo tra Alessandro Cavalli e Angelo Bolaffi
Io vorrei andarmene...
Il diritto al suicidio assistito
intervista a Felicetta Maltese
8 marzo
Un appello di “donne in relazione nella rete Dichiariamo”
Orwell in Spagna
di Alfonso Berardinelli
In ricordo di Licia Pinelli
di Matteo Lo Presti
Dialogo tra un gentile e un ebreo sul tempo presente
di Emilio Jona
La questione palestinese
di Giampietro Berti
La sedia
di Belona Greenwood
La visita
è alla tomba di J. F. Kennedy
Il reprint.
“L'Europa muore o rinasce a Sarajevo”
di Alex Langer
In copertina, la durissima lettera che trentanove ex prigionieri politici del regime comunista polacco, con primo firmatario Lech Walesa, hanno inviato a Trump. La copertina, a colori come ogni volta che le cose vanno male, è dedicata all’eroico popolo ucraino, colpito alle spalle dal suo principale amico. Il tradimento dell’America resterà nei libri di storia e il paragone con Monaco, di cui ci parla Stephen Bronner, è illuminante, anche se questa volta serpeggia addirittura il sospetto che il nuovo presidente degli Stati Uniti possa passare dall’altra parte. Avevamo scritto che la prepotenza dilaga, ma non immaginavamo certo in tale misura. Abbiamo visto l’inverosimile: il presidente della più grande e gloriosa democrazia del mondo dire, di fronte al Congresso e in mondovisione, che i pochi abitanti della Groenlandia si convinceranno di diventare americani e, comunque, “in un modo o in un altro lo diventeranno”. Dietro al Presidente il suo vice ha ammiccato trattenendo la risata. Una scena da film western di terza categoria, dove la banda dei cattivi ridacchia prima di uccidere il disarmato. Abbiamo visto il video della Gaza del futuro, dove il presidente si gode il sole su una sdraio e donne seminude ballano là dove ora uomini, donne, vecchi e ragazzini, molti dei quali in lutto, si aggirano in un mare di macerie.
Non sottovalutiamoli, però. Fanno sul serio. Hanno ambizioni imperiali e sono gli imperi a provocare le guerre o le spartizioni del mondo. Cos’è esattamente “quel che è nostro” del dittatore russo? Già Romania e Georgia sono in subbuglio, la Serbia anche e i baltici si preoccupano. Tutto è diventato estremamente difficile. Destre forse eversive guadagnano voti ovunque grazie all’immigrazione clandestina, all’ideologia woke, alla crisi della classe operaia. La Germania per ora s’è salvata, ma per quanto? E se l’economia crollasse? Della situazione tedesca ne parlano insieme Angelo Bolaffi e Alessandro Cavalli.
Poi c’è Gaza. Che succederà? Secondo Rimmon Lavi, che ci scrive da Gerusalemme, è sempre più chiaro che Hamas ha vinto, anche solo perché è viva. Se Rimmon dovesse aver ragione, Trump e Netanyahu potrebbero decidere di scatenare quell’“inferno” già minacciato, premessa di deportazioni e annessioni. A favore della proposta “due popoli due stati” riportiamo gli interventi, al Congresso nazionale di “Sinistra per Israele”, di Bernard Sabella, palestinese, di Jair Golan, israeliano e di Daniel Cohn-Bendit; poi la nostra intervista a Bashir Bashir, intellettuale palestinese. Ma “due popoli, due stati” sembra sempre più un miraggio, anche perché, come ci dice Ernesto Galli della Loggia, i palestinesi da chi possono essere rappresentati in una eventuale trattativa? Non da Hamas, non dall’Iran, non dalla corrotta Anp. E chi hanno per tenere a bada chi vuole distruggere Israele?
Può succedere di tutto. Che l’establishment politico e militare corra ai ripari, neutralizzando gli avventurieri, o che un disastro economico e politico, con conseguente disillusione, spinga il presidente e i suoi fedeli, a ridosso delle prossime elezioni, a rompere le regole. In entrambi i casi il rischio di guerra civile sarebbe concreto. Un rischio che, del resto, correrebbe ogni paese che si avviasse sulla “via democratica al fascismo”, quella scelta, al tempo, sia da Mussolini che da Hitler. In questo scenario L’Unione europea e l’Inghilterra, ma non solo, possono essere il baluardo su cui arroccarsi. Ma devono unirsi e armarsi.
Alla parola “riarmo” si sono subito alzate le grida di scandalo dei pacifisti, di parte dei cattolici, dei nostalgici dell’Urss e di gran parte della sinistra. Gridano “Lavoro non armi”, ma la parola libertà non la dicono mai, è scontata, quasi fosse un patrimonio geografico che nessuno può toglierci. Pazienza per gli ucraini, nati in un posto sfortunato. E comunque sempre “meglio schiavi che morti”. Dopodiché tutti a inneggiare a ogni pié sospinto alla Resistenza e alla Costituzione antifascista e a richiedere patenti di antifascismo a destra e a manca. In questo numero, per “reprint” pubblichiamo uno degli ultimi interventi di Alex Langer, a proposito della guerra in Bosnia e dell’infame assedio di Sarajevo che durava già da tre anni. Alex chiedeva un intervento per romperlo. Aveva appena partecipato a una manifestazione europea a Cannes: “C’erano molti pannelliani”, racconta con una punta di amarezza; “i suoi”, infatti, non c’erano. Nello scritto riporta la lettera che l’amico Beslagic, sindaco di Tuzla, gli gira dopo averla inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu: “Voi state a guardare e non fate niente, mentre un nuovo fascismo ci sta bombardando: se non intervenite per fermarli, voi che potete, siete complici, è impossibile che non ve ne rendiate conto”.
Ora, uno è libero di assolutizzare il principio della nonviolenza, non è libero di farlo nel nome di Alex.
Ma resta la domanda cruciale che Galli della Loggia ci invita a farci: perché le elezioni le vincono gli altri? Prendiamo l’impegno di pensarci, di chiedere in giro e di provare a rispondere. Di certo fa impressione vedere l’entusiamo di tanta gente comune urlare: “Combattere, combattere, combattere”. Qualcosa pensiamo che si possa già dire: che la sinistra paternalista, statalista, diretta da un ceto politico di professione, privilegiato, che pensa che la gente comune abbia bisogni e desideri solo di protezione, è arrivata al capolinea. Forse bisogna tornare alle origini, quando si pensava che il “far da sé” collettivo, in collaborazione o in concorrenza con quello individuale, fosse la chiave di volta di una società nuova; quando si pensava che lo stato deve aiutare solo a rimettere in piedi chi cade, non a cronicizzare la debolezza; che la patria ha a che fare con il buon vicinato, in fabbrica, in campagna o nel quartiere; che dà soddisfazione non solo godere di diritti ma anche impegnarsi nei doveri; che un rappresentante dei lavoratori debba avere un reddito non troppo diverso da quello dei suoi rappresentati. Ne riparleremo.
La visita è alla tomba di John F. Kennedy e la citazione è tratta dal discorso che tenne a Berlino, vicino al muro: “Ogni uomo libero, ovunque viva, è cittadino di Berlino. E, dunque, come uomo libero, sono orgoglioso di dire: ich bin ein Berliner”.
Alfonso Berardinelli ci parla del grande Orwell che, andato in Spagna nel 1936 per scrivere articoli, si arruolò nella milizia antifranchista per difendere la Repubblica.