Potrei parlare del 27 febbraio 1933, giorno dell’incendio del Reichstag e degli arresti illegali che seguirono nella stessa notte. [...] Ora, nel 1933, Blumenfeld e altri vennero a trovarmi e mi dissero: vogliamo raccogliere tutte le testimonianze antisemite di basso rango in vigore in tutte le associazioni, in tutte le corporazioni e in tutte le riviste professionali possibili, insomma tutto ciò che è sconosciuto all’estero. Organizzare questa raccolta ricadeva in ciò che allora si chiamava Greuelpropaganda, cioè una contropropaganda tesa a snaturare le posizioni altrui fino alla diffamazione.
Nessun membro dell’organizzazione sionista poteva evidentemente occuparsene perché, se fosse andata male, l’organizzazione ne sarebbe stata travolta. Dunque mi chiesero: “Vuoi occupartene?”, e io risposi: “Certo!”. Ero molto contenta: mi era sembrata subito un’idea eccellente e avevo sentito altrettanto prontamente che era per me una maniera di agire.
[…] Fui arrestata allora. Ma ho avuto molta fortuna: ne sono venuta fuori in capo a otto giorni perché avevo fatto amicizia col funzionario della polizia giudiziaria che mi aveva arrestato. Era un tipo affascinante. Era stato promosso dalla polizia criminale alla sezione politica. Non aveva alcun sospetto. Perché avrebbe dovuto averne? Mi diceva sempre: “Di solito mi basta osservare la persona che mi siede di fronte per sapere subito di che cosa si tratta. Ma con lei, che fare?”. [...] Purtroppo ho dovuto mentire a quell’uomo. Non avevo il diritto di esporre l’organizzazione. Gli ho raccontato delle frottole senza senso e lui mi  ripeteva: “Sono io che l’ho fatta entrare qui. Io la farò uscire. Non prenda avvocati! Gli ebrei non hanno più soldi, risparmi i suoi soldi”. Intanto l’organizzazione mi aveva procurato un avvocato. Naturalmente lo aveva scelto tra i suoi membri, ma io lo rimandai indietro perché l’uomo che mi aveva arrestata aveva una faccia così aperta, così onesta. Mi affidai a lui e pensai che era una chance molto migliore di un povero avvocato spaventato.

[...] Mia madre non aveva molta disposizione per la teoria, non penso che abbia avuto delle idee particolari. Veniva anche lei dal Movimento socialdemocratico [...] tornando alla particolarità della mia casa, vede, tutti i bambini ebrei hanno incontrato l’antisemitismo, ed esso ha avvelenato l’anima di tanti bambini, ma la differenza da noi stava nel fatto che mia madre adottava sempre il seguente punto di vista: non si deve abbassare la testa! Bisogna difendersi! Se capitava che i miei professori facessero qualche osservazione antisemita... avevo ricevuto la consegna di alzarmi subito, di lasciare la classe e tornare a casa a riferire esattamente quello che era successo. Dopodiché mia madre scriveva una delle sue numerose lettere raccomandate e l’incidente per me era chiuso: avevo un giorno di congedo ed era formidabile. Ma se si trattava di osservazioni fatte da altri bambini, la consegna era di non raccontarlo a casa: non ne valeva la pena. Ci si può difendere da soli contro i bambini...
Hannah Arendt
Resta solo la lingua materna (da un’intervista raccolta nel 1965), “Fine Secolo”, 5-6 ottobre 1985
Cimitero del Bard College, Annandale-on-Hudson, New York.