Una Città218 / 2015
Dicembre-Gennaio


"Il silenzio è la morte;
\r e tu, se taci muori
\r e se parli muori
\r allora parla e muori...”


Tahar Djaout. giornalista, poeta e romanziere algerino, è stato assassinato il 26 maggio 1993 da un commando terrorista con due proiettili alla testa. Era appena uscito il n° 20 della sua rivista e stava concludendo il n° 22. Morì 8 giorni dopo, a 39 anni. Il suo assassinio
fu il primo di una lunga serie di uccisioni di intellettuali, artisti, giornalisti e militanti progressisti in Algeria.
 

Le nostre banlieue e il Medio Oriente
Dopo l’attentato a Charlie Hebdo
Intervista a Philip Golub

La guerra fascisto-islamista colpisce
il cuore di Parigi
Intervento di Bruno Giorgini

L’abbraccio coi Crs e quel giovane musulmano
La straordinaria manifestazione di Parigi
Intervista a Sulamit Schneider

Siamo così
Il concetto di neurodiversità
Intervista ad Andrea Lollini

Lo specchio del figlio
La scuola e la seconda generazione
Intervista a M. Modesti e S. Varvarica

Dove andranno i miei scolari?
La fine dell’emergenza Nordafrica
Intervista a Elena Dina, Rosa Ferrari, Maria Bacchi e Don Roberto

1938. Per legge
I documenti delle leggi razziali

Le molte diversità
La storia degli ebrei mantovani
Intervento di Maurizio Bertolotti

Il futuro in 70 centrimetri
La Moldavia al bivio tra storia e futuro
Intervento di Paolo Bergamaschi

I nomi in sardo
Un ergastolano ostativo racconta la sua storia
Intervista a Mario Trudu

A quel punto Ezio aveva alzato la mano...
Un ricordo di Ezio Tarantelli, ucciso per le sue idee
Intervento di Andrea Ginzburg

Dissidenti
Il dramma dei morti di Shanghai
Lettera di Ilaria Maria Sala

What next?
Come sarebbe il mondo senza arte, libri...
Lettera di Belona Greenwood

La Darìja
Tra Torino e il Marocco
Lettera di Emanuele Maspoli

Appunti di un mese

Reprint
Dal nostro archivio, riproponiamo:
La terza ondata
Intervista ad André Glucksmann
New York e i pazzi col turbante
Intervento di Chou­rar Saïd
L’intolleranza
Intervento di Abdesslam Chedaddi

La visita è alla tomba di Said Mekbel

La copertina è un atto dovuto.
La "visita”, in penultima, è alla tomba di Said Mekbel, giornalista di "Le Matin” assassinato il 3 dicembre 1994, il giorno stesso in cui aveva pubblicato le seguenti parole: "È lui quel ladro che la sera torna a casa camminando rasente i muri; il padre che raccomanda ai figli di non parlare del lavoro che fa; il povero cittadino al palazzo di giustizia in attesa di andare davanti ai giudici... Il vagabondo che non sa più dove trascorrere la notte. [...] Quest’uomo che non vuole morire sgozzato, è lui. Il corpo su cui ricuciono una testa tagliata, è lui. È lui che con le mani non sa fare altro che scrivere i suoi piccoli pezzi. Lui che spera contro la speranza, dato che le rose nascono sui mucchi di letame. Lui che è tutto questo e solo questo: un giornalista”.
Said Mekbel era reduce da un giro di conferenze in Europa per raccogliere solidarietà ai democratici e ai civili algerini sotto attacco dei terroristi islamisti. Aveva incontrato il gelo; peggio: il sospetto di essere mandato dai servizi di sicurezza del regime algerino. Era rimasto talmente sconvolto da scegliere consapevolmente di mantenere le sue abitudini quotidiane nel momento in cui tutti i suoi colleghi entravano in semiclandestinità. Fu ucciso nel ristorante in cui pranzava ogni giorno.
L’Europa non aveva capito o non aveva voluto capire.
Avremo capito ora?
La manifestazione è stata entusiasmante. Ce la racconta la nostra collaboratrice Sulamit Schneider. Lì abbiamo visto l’Europa che sogniamo ma che temiamo non arrivi mai. E però passano i giorni e la sensazione che stia subentrando il desiderio di "liberarsi” di quel che è successo si fa strada.
Le discussioni assurde sull’opportunità o meno di pubblicare vignette raffiguranti Maometto, ma che denunciavano in realtà le imprese di islamisti fanatici che tagliano le teste a innocenti, che sequestrano ragazze per costringerle a matrimoni forzati, di un giorno o più, che praticano la pulizia etnica e religiosa dei civili, fanno una certa impressione. Ci piace già pensare che senza quelle vignette i redattori di "Charlie Hebdo” sarebbero vivi e noi tranquilli? Ma i quattro ebrei? Cosa c’entravano con le vignette? Vogliamo ridurci, di nuovo, a darli per scontati come obiettivo?
Philip Golub giustamente ci dice che il vero scopo degli islamisti è la conquista del Medio Oriente, il che vuol dire che gli attacchi di Parigi sono una precisa intimidazione a non continuare nei bombardamenti mirati che sono riusciti a fermare la loro avanzata. È questo il messaggio: se vogliamo star tranquilli dobbiamo lasciarli prendere Kobane, mettere sulle inferriate le teste dei suoi eroici difensori e farci giocare attorno i ragazzini. Altro che vignette! Ed è su questo terreno che loro valuteranno il successo del loro attacco e dei prossimi.
Cosa faremo? Cosa stiamo facendo?
La vignetta che pubblichiamo, di Charb, richiama l’Inquisitore dei Karamazov: se i profeti tornassero sarebbero uccisi dai loro. Esprime la speranza che l’interpretazione letterale dei testi ne tradisca lo spirito: se Maometto introdusse l’obbligo del velo per le donne per proteggerle dai clan che nelle loro guerre usavano lo stupro come arma, bisogna chiedersi che cosa oggi protegga le donne. L’istruzione -ci diceva il Mufti di Marsiglia- e quello è ciò che vorrebbe oggi Maometto. Speriamo con tutto il cuore che abbia ragione.
Dedichiamo questo numero a Frédéric Boisseau, Franck Brinsolaro, Cabu, Elsa Cayat, Charb, Honoré, Bernard Maris, Ahmed Merabet, Mustapha Ourrad, Michel Renaud, Tignous, Wolinski, Philippe Braham, Yohan Cohen, Yoav Hattab, Clarissa Jean-Philippe e Francois-Michel Saada. È nel loro nome che dovremmo dedicarci di più alle nostre periferie e fare, con tutte le forze che abbiamo, la giusta guerra contro il nuovo fascismo.