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Una Città n° 306 / 2024
dicembre 2024-gennaio 2025
“È terribile osservare la città morta. Vicino al porto ho trovato bambini, donne e anziani che cercavano un modo per scappare. Sono entrata nelle case, abitazioni dove c’erano ancora tazze di caffè e pezzi di pane sul tavolo; non ho potuto fare a meno di pensare che quello spettacolo somigliasse a quello di tante case ebraiche [in Europa, durante la Seconda guerra mondiale]”. [...] Dovrebbero gli ebrei fare un qualche sforzo per riportare gli arabi ad Haifa oppure no [?]. Nel frattempo, almeno finché non decideremo diversamente, abbiamo stabilito una serie di regole, tra le quali il fatto che non andremo ad Acri o a Nazareth per riportarci gli arabi. Ma, allo stesso tempo, dovremmo fare in modo che se dovessero farvi ritorno da soli, allora dovremmo lasciarglielo fare. Non dovremo comportarci
tanto male con gli arabi [che sono rimasti] da scoraggiare coloro che sono fuggiti a fare rientro”.
Golda Meir, 6 maggio 1948, dopo una visita ad Haifa appena conquistata
(citata in The Birth of the Palestinian Refugee Problem Revisited, 2004, di Benny Morris)
una città n. 306 - dicembre 2024 - gennaio 2025
In copertina: Auschwitz
Foto di Massimo Assirelli
L’hanno votato proprio loro...
Sulla fine dell’era Biden e l’arrivo di Trump
di Michael Walzer
Ce la faremo, insieme
Voci da Israele
intervista a Elisheva Baumgarten
Quel che succede nei territori palestinesi. In un mese
Rapporto sulle demolizioni di dicembre 2024
I dilemmi dell’ebraismo al tempo di Gaza
intervento di David Calef
Meditazioni sullo sterminio e sul Giorno della Memoria
di Michele Battini
“Tra gli isolani era un barbone...”
di Alberto Cavaglion
La curiosità!
Sulla geografia, materia multidisciplinare
intervista a Michael Hill
Olympe de Gouges
Una precursora del femminismo
di Franca Zanelli Quarantini
Il contagio della risata
Sul perché, non solo noi, ridiamo
intervista a Elisabetta Palagi e Fausto Caruana
Plausibilità, probabilità e certezze assolute
intervista a Carlo Rovelli
Giacomo Debenedetti e il romanzo del Novecento
di Alfonso Berardinelli
Una catastrofe globale
di Matteo Lo Presti
Un pasticcio
di Vicky Franzinetti
I cigni morti
di Belona Greenwood
La visita
è alla tomba di Walter Benjamin
Il reprint. “Il liberismo nell’Internazionale”
Una lettera di Camillo Berneri a Piero Gobetti
La copertina è dedicata alla giornata della memoria e tante pagine della rivista alla situazione in Israele e nei territori palestinesi e ai riflessi che tutto questo ha sul mondo ebraico. Speriamo che la giornata sia andata, tutto sommato, bene. Nel saggio “Meditazioni sullo sterminio e sul Giorno della Memoria”, Michele Battini ripercorre le tappe storiche dell’antisemitismo italiano culminato nelle leggi razziali del ’38; riportiamo la conclusione: Il punto cruciale è infine questo: la memoria della Shoah non può essere patrimonio esclusivo di uno Stato o di uno schieramento. Dopo la catastrofe del 1939-’45, fu inevitabile riconoscere che gli ebrei nel mondo e nello Stato di Israele fossero in credito nei confronti dell’umanità, per quanto avevano sofferto -la persecuzione dei diritti e delle vite approdata a un irreparabile genocidio. Sul piano storico come su quello etico, tuttavia, la responsabilità e la memoria della Shoah concernono tutti, non escluse le vittime del genocidio. Primo Levi lo seppe e lo sostenne, e fu tale consapevolezza a mutarsi in lui, con gli anni, in un’ossessione disperante dell’impensabile, quella che oggi consuma anche noi”. E così conclude il suo intervento “I dilemmi dell’ebraismo al tempo di Gaza” David Calef: Alla luce della bestiale aggressione di Hamas del 7 ottobre e dei massacri nei 15 mesi successivi, è necessario chiedersi se la sfida principale del mondo ebraico nel XXI secolo non sia proprio quella di rivedere gli stereotipi identitari di vittima eterna che alimentano l’estremismo nazionalista. A mettere a repentaglio Israele e la diaspora che lo segue docilmente non è più la loro vulnerabilità quanto proprio il contrario: la forza e la potenza militare utilizzate non solo come legittima autodifesa ma come strumento di dominio su un altro popolo.
Gaza, quindi. Le immagini di decine di migliaia di profughi che ritornano a casa, cioè a un deserto di macerie, resteranno nella storia. E vien da chiedersi: ma era questo il modo per distruggere Hamas? O si voleva colpire nel modo più crudele il popolo palestinese? E con che scopo?
La parola genocidio sta suscitando polemiche a non finire e certamente se usiamo come metro di paragone la Shoah, ogni comparazione diventa assurda e aberrante. Lì l’umanità ha toccato un fondo che probabilmente non sarà mai più raggiunto. Ma nella storia ci sono stati altri genocidi, il più importante dei quali è quello degli armeni perpetrato dai turchi. Sono quelli cioè che hanno come scopo l’espulsione di una popolazione da un territorio: si cacciano le persone dalle case, si compiono massacri di massa che non risparmiano né donne né bambini né anziani, si semina così il terrore per far fuggire altrove il resto di quella popolazione. Ai tempi dei Balcani il tentativo fu dei serbi contro i bosniaci prima e i kossovari poi. Lì fu coniata la definizione di “pulizia etnica”. Allora, è a questo che sta pensando la destra israeliana, quella che da sempre sogna “la grande Israele”? D’altra parte se avesse voluto solo distruggere Hamas, come dichiarato, perché, forte dell’orrendo crimine subito, non tentare di creare un solco fra questa e i palestinesi, usando solo “mezzi chirurgici” e contemporaneamente fornendo un aiuto umanitario a una popolazione costretta comunque a gravi sacrifici e a inevitabili lutti? Clinton ottenne la resa della “grande Serbia” e della sua forte armata, addestrata da sempre ai “due fronti”, cioè alla guerriglia, facendo solo poche centinaia di morti. Perché fare una tabula rasa che non può che allontanare, e per chi sa quanto, ogni possibilità di una pacificazione e quindi di uno stato palestinese? Se allora mettiamo insieme la progressione inesorabile della colonizzazione della Cisgiordania, la cui documentazione, mandataci da Jeff Halper, pubblichiamo in questo numero, i settantamila morti e la distruzione sistematica delle case di Gaza e, ora, le parole di Trump, il sospetto che di un progetto genocidiario si tratti, non può non venire.
Infine l’amico Cavaglion ci ricorda, con un bel racconto di Nello Rosselli, che il contraddittorio è non solo un diritto, ma è sempre utile. Quel che sta succedendo nelle università, dove chi vuole difendere Israele non ha diritto di parola, segue purtroppo una tradizione che viene dagli anni Settanta. Chi allora militò nell’estrema sinistra non può non ricordare che “non lasciavamo parlare”. Ultimamente ci ha fatto piacere scoprire che Vincenzo Bugliani, uno dei più autorevoli compagni di quei tempi, che ora purtroppo non c’è più, ebbe a dire che “eravamo stati degli squadristi”. Purtroppo questa è una delle poche cose che da allora s’è tramandata di generazione in generazione, insieme a quella, di “svoltare”, durante un corteo, per andare a cercare il taumaturgico scontro con la polizia. Vogliamo allora essere chiari, anche se Alberto Cavaglion ci criticherà per l’abuso, che denuncia, della parola “fascista”: non far parlare qualcuno è fascismo. Sono loro, chi parla, a finire in carcere o a essere uccisi in Russia, in Cina, in Iran. Fu Matteotti a parlare.
Poi la speranza non muore mai. Elisheva Baumgarten, israeliana impegnata nel dialogo e nell’incontro fra ebrei e arabi e nella lotta contro dei “governanti fascisti”, conclude la sua intervista dicendo: Io continuo a credere nel popolo israeliano. Non penso ci siano altri luoghi in cui la gente manifesti settimana dopo settimana, mese dopo mese, per così tanto tempo, senza arrendersi. Siamo testardi e se nei miei giorni difficili penso che sia tutto perduto, in quelli buoni penso che ce la faremo. I miei genitori vengono alla manifestazione ogni sabato sera, ho una sorella che va a tutte le manifestazioni. I miei figli grandi pure. La piccola è ancora nell’esercito quindi non manifesta ma è una vera pacifista...