Una Città302 / 2024
giugno-luglio-agosto


I socialisti credono condizione necessaria per lo sviluppo e l’emancipazione della classe lavoratrice il metodo democratico di libertà politica. Ciò non vuol dire, come alcuni temono, che noi vogliamo resuscitare gruppi e situazioni parlamentari di una certa democrazia che diede tanta prova della sua incapacità e mancanza di dignità. Ma riteniamo che lo stesso interesse che hanno gli operai, i contadini, i professionisti e i lavoratori intellettuali a un regime politicamente libero e civile, abbiano tutti i ceti medi, e possano averlo anche l'industria, il commercio, l'agricoltura, intesi come produzione e non come parassitismo.
(Giacomo Matteotti, “Direttive del Partito socialista unitario”, 16 aprile 1923)

giugno-luglio-agosto 2024

In copertina
Giacomo Matteotti

Nel nome di Matteotti
di Matteo Lo Presti

C’è qualcosa che non va. Per una politica di sinistra incentrata sulle persone
di Michael Walzer

Quindi che succederà?
Sulla Germania e l’Europa
intervista ad Angelo Bolaffi

Il lavoro e il resto della vita
Come sta cambiando il lavoro
intervista ad Anna Maria Ponzellini

Quando si parla di impegno
Per una scuola esigente
intervista a Giorgio Ragazzini

ufaFabrik
Storia di una comune berlinese
intervista a Manni Spaniol

“Che la forza sia con te”
Diario dall’Ucraina
intervista a David Calef

Il pacco da giù
Una storia di lavoro e di passioni
intervista a Daniela Colagrande

Stregoneria e diritto
L’impero britannico e la stregoneria
intervista a Catherine Luongo

L’antifascismo espiativo
di Alberto Cavaglion

Kafka (e noi?) davanti alla Legge
di Alfonso Berardinelli

Riconoscere adesso lo Stato di Palestina
di Rimmon Lavi

Perché gli studenti si mobilitano per la Palestina e non per l’Ucraina?
di Alessandro Cavalli

Lo spauracchio demografico cambia verso?
di Massimo Livi Bacci

Il tribunale sikh?
di Vicky Franzinetti

Un po’ di cielo azzurro...
di Belona Greenwood

La lettera dal passato è di Rocco Scotellaro
commentata da Giovanni Tassani (p. 46)
 
Dedichiamo a Giacomo Matteotti la copertina e anche l’apertura. Non solo al coraggioso antifascista, che parlò sapendo cosa gli sarebbe costato, ma anche al coerente e lungimirante socialdemocratico. Fa impressione il disprezzo espresso da Gramsci con quel “pellegrino del nulla”. Per fortuna spesso, se non sempre purtroppo, la storia fa giustizia: i socialdemocratici hanno appena vinto le elezioni in Inghilterra e l’ormai secolare pellegrinaggio dei comunisti nei fallimenti e negli orrori non è ancora finito. Del resto il loro disprezzo verso la democrazia “borghese” e per chi voleva fare il socialismo senza rinunciare alla libertà, è cosa nota. Spesso questi ultimi divenivano il primo nemico da combattere, per far cadere la maschera al capitalismo e svelarne la vera faccia. Li si chiamava “socialfascisti”. Quel che poi è successo in Italia è quasi incredibile: quando i comunisti non lo sono più stati, invece di presentarsi col cappello in mano dai socialdemocratici dicendo: “Avevate ragione, Livorno è stato un tragico errore, rimettiamoci insieme”, hanno continuato a detestarli e a denigrarli, per poi andare ad abbracciare, non già i liberali, pressoché inesistenti in Italia, ma i “conservatori”, conservatori di tutto, del buono, del cattivo e pure del cattivissimo.
Negli anni Sessanta e Settanta lo stesso: l’indignazione più sincera per l’ingiustizia e i migliori propositi di cambiamento sono stati presto rovinati dal recupero dell’ideologia rivoluzionaria comunista. Per questo Nicola Chiaromonte la chiamò “una rivolta conformista”. E di ciò, tutti noi, quelli ultrasettantenni ovviamente, abbiamo fatto esperienza. Alcuni anni fa abbiamo invitato al 900fest Giorgio Benvenuto, negli anni Settanta segretario per la Uil della leggendaria Flm. Siamo stati molto contenti di conoscerlo. Ebbene, un sabato del ’74 o del ’75, con un gruppo di operai del siderurgico tarantino partecipavamo a una manifestazione sindacale di tutto il Sud a Napoli, in piazza del Plebiscito. Iniziò a parlare Benvenuto. La contestazione degli “estremisti”, per impedirgli di parlare, era molto forte. Premendo ci eravamo avvicinati al palco e uno dei nostri operai, un giovane di Taranto Vecchia, generosissimo e stimato da tutti, in fabbrica e fuori, si tolse una scarpa e la tirò verso il palco, mancando il viso di Benvenuto per mezzo metro (non ho avuto il coraggio di dirglielo, a tavola. Ma credo ne avrebbe riso). Però la domanda resta: come eravamo arrivati a seminare tanto odio?
Michael Walzer ci racconta la sua esperienza da giovane nella lotta contro l’ingiusta guerra nel Vietnam, che per tantissimi, però, volle dire passare, senza se e senza ma, dalla parte dei viet-cong e della loro ideologia comunista, senza più alcun riguardo per la popolazione del sud e alcun interesse a sapere dei crimini dei viet-cong. La stessa cosa sta succedendo oggi: ci si commuove per i palestinesi, ma non per le giovani israeliane violentate e uccise il 7 ottobre, né per gli ucraini massacrati da un invasore potente e prepotente. Ma perché? È la domanda a cui cerca di rispondere anche Alessandro Cavalli. La risposta, alla fine, forse è semplice: a vivere con la “verità in tasca”, a sentirsi “culturalmente egemoni”, presto ci si ammala e di un male molto grave e degenerativo. Raccontiamo poi la storia di una comune tedesca nata a Berlino nei Settanta, appunto, e che tuttora è viva e vegeta. Ecco: forse, oltre che stare dalla parte dell’Flm, avremmo dovuto fondare comuni, cooperative, società di mutuo soccorso, doposcuola e scuole popolari, arruolare maestri, avvocati e medici di strada, costruire le case del popolo del futuro; “rivoluzionare”, cioè, innanzitutto la propria vita sociale, dando l’esempio. Forse l’Italia oggi sarebbe diversa.
Scrive Matteotti su “La Lotta”, nell’agosto 1919: “Il socialismo esige non soltanto la lotta e la vittoria sopra la classe avversaria, ma anche e soprattutto la lotta e la vittoria sopra di noi stessi, sopra i lavoratori medesimi, per togliere i sentimenti egoistici e prepararli al socialismo. Ora io domando: quanti che oggi gridano, e giustamente, contro la borghesia, per le sue colpe e il suo egoismo sfruttatore, quanti di essi sarebbero pronti a sacrificare se stessi o il loro piccolo bene, per la collettività? Quanti che gridano contro il proprietario borghese, se possedessero appena un campicello, farebbero altrettanto! E quanti che accusano la borghesia di non pagarsi la sua guerra, stentano a pagare le quote del proprio Partito, o non si sono ancora sforzati di istituire una Cooperativa, o non sanno intraprendere una affittanza collettiva per mancanza di fiducia tra gli stessi compagni di lavoro! E allora? Si pensa forse che la rivoluzione, cioè l’immediato abbattimento del Governo borghese, darà senz’altro alla massa, come per forza magica, quelle virtù che non ha? [...] si pensa forse che domani con la rivoluzione diventeranno tutti dei buoni socialisti? O non si dovrebbe temere che essi allora si convertirebbero al Socialismo, in quanto questo sia predominante e ne aspettino altri vantaggi materiali, senza capacità di contributo e di sacrificio proprio? E gli incapaci di gestire oggi onestamente una piccola affittanza in cooperativa, saranno domani senz’altro capaci di amministrare tutta la ricchezza nazionale divenuta collettiva? Io credo veramente che compiere una rivoluzione sia piccola e facile cosa. Abbattere la borghesia è il meno. Il più è costruire e preparare il socialismo dentro di noi. Ora quando la massa sarà pronta ed educata al socialismo, la rivoluzione avverrà da sé, per forza di cose. Ma appunto per ciò noi dobbiamo compiere giorno per giorno quella più difficile ed aspra opera di preparazione, la quale non si riassume in un facile grido incomposto o in una momentanea ubriacatura, ma è la vera opera rivoluzionaria e socialista, fatta di coscienza e di sacrificio”.
Sì, la Schlein ha sbagliato a non scegliere gli occhi di Matteotti che ci guardano. Sarebbe stata una tessera bellissima e un gesto storico di riparazione.

Poi Angelo Bolaffi ci parla della Germania e di un’Europa in difficoltà, Anna Maria Ponzellini delle novità che aspettano il lavoro, Giorgio Ragazzini della scuola, Catherine Luongo della stregoneria in Africa, Daniela Colagrande del lavoro che si è inventata, con la sua bicicletta, ad Amsterdam; poi di David Calef pubblichiamo un diario del suo soggiorno in Ucraina, di Alberto Cavaglion una riflessione su I piccoli maestri di Meneghello e sulla “resistenza espiativa”; infine abbiamo Alfonso Berardinelli sul racconto del “guardiano” di Kafka, Rimmon Lavi da Gerusalemme sullo stato palestinese, Belona Greenwood sull’azzurro riapparso in Inghilterra, Vicky Franzinetti sull’istituzione, sempre in Inghilterra, di un tribunale sikh, Giovanni Tassani su una lettera di Rocco Scotellaro; infine Massimo Livi Bacci ci stupisce: la crisi demografica non sarà alla fine positiva? Siamo troppi?